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Sabra e Chatila. Per non dimenticare.

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170912

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Sabra e Chatila. Per non dimenticare. Empty Sabra e Chatila. Per non dimenticare.





Sabra e Shatila: "Ce lo dissero le mosche..."




Sabra e Shatila 30 anni dopo. Una
strage rimasta impunita. Ecco l'articolo che scrisse Robert Fisk uno dei
primi giornalisti ad entrare dopo il massacro.


http://www.globalist.it/Detail_News_Display?ID=33360

"Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era
eloquente quasi quanto l'odore. Grosse come mosconi, all'inizio ci
coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti. Se
stavamo fermi a scrivere, si insediavano come un esercito - a legioni -
sulla superficie bianca dei nostri taccuini, sulle mani, le braccia, le
facce, sempre concentrandosi intorno agli occhi e alla bocca,
spostandosi da un corpo all'altro, dai molti morti ai pochi vivi, da
cadavere a giornalista, con i corpicini verdi, palpitanti di eccitazione
quando trovavano carne fresca sulla quale fermarsi a banchettare.


Se non ci muovevamo abbastanza velocemente, ci pungevano. Perlopiù
giravano intorno alle nostre teste in una nuvola grigia, in attesa che
assumessimo la generosa immobilità dei morti. Erano servizievoli quelle
mosche, costituivano il nostro unico legame fisico con le vittime che ci
erano intorno, ricordandoci che c'è vita anche nella morte. Qualcuno ne
trae profitto. Le mosche sono imparziali. Per loro non aveva nessuna
importanza che quei corpi fossero stati vittime di uno sterminio di
massa. Le mosche si sarebbero comportate nello stesso modo con un
qualsiasi cadavere non sepolto. Senza dubbio, doveva essere stato così
anche nei caldi pomeriggi durante la Peste nera.


All'inizio non usammo la parola massacro. Parlammo molto poco perché le
mosche si avventavano infallibilmente sulle nostre bocche. Per questo
motivo ci tenevamo sopra un fazzoletto, poi ci coprimmo anche il naso
perché le mosche si spostavano su tutta la faccia. Se a Sidone l'odore
dei cadaveri era stato nauseante, il fetore di Shatila ci faceva
vomitare. Lo sentivamo anche attraverso i fazzoletti più spessi. Dopo
qualche minuto, anche noi cominciammo a puzzare di morto.


Erano dappertutto, nelle strade, nei vicoli, nei cortili e nelle stanze
distrutte, sotto i mattoni crollati e sui cumuli di spazzatura. Gli
assassini - i miliziani cristiani che Israele aveva lasciato entrare nei
campi per «spazzare via i terroristi» - se n'erano appena andati. In
alcuni casi il sangue a terra era ancora fresco. Dopo aver visto un
centinaio di morti, smettemmo di contarli. In ogni vicolo c'erano
cadaveri - donne, giovani, nonni e neonati - stesi uno accanto
all'altro, in quantità assurda e terribile, dove erano stati
accoltellati o uccisi con i mitra. In ogni corridoio tra le macerie
trovavamo nuovi cadaveri. I pazienti di un ospedale palestinese erano
scomparsi dopo che i miliziani avevano ordinato ai medici di andarsene.
Dappertutto, trovavamo i segni di fosse comuni scavate in fretta.
Probabilmente erano state massacrate mille persone; e poi forse altre
cinquecento.


Mentre eravamo lì, davanti alle prove di quella barbarie, vedevamo gli
israeliani che ci osservavano. Dalla cima di un grattacielo a ovest - il
secondo palazzo del viale Camille Chamoun - li vedevamo che ci
scrutavano con i loro binocoli da campo, spostandoli a destra e a
sinistra sulle strade coperte di cadaveri, con le lenti che a volte
brillavano al sole, mentre il loro sguardo si muoveva attraverso il
campo. Loren Jenkins continuava a imprecare. Pensai che fosse il suo
modo di controllare la nausea provocata da quel terribile fetore.
Avevamo tutti voglia di vomitare. Stavamo respirando morte, inalando la
putredine dei cadaveri ormai gonfi che ci circondavano. Jenkins capì
subito che il ministro della Difesa israeliano avrebbe dovuto assumersi
una parte della responsabilità di quell'orrore. «Sharon!» gridò. «Quello
stronzo di Sharon! Questa è un'altra Deir Yassin.»


Quello che trovammo nel campo palestinese di Shatila alle dieci di
mattina del 18 settembre 1982 non era indescrivibile, ma sarebbe stato
più facile da raccontare nella fredda prosa scientifica di un esame
medico. C'erano già stati massacri in Libano, ma raramente di quelle
proporzioni e mai sotto gli occhi di un esercito regolare e
presumibilmente disciplinato. Nell'odio e nel panico della battaglia, in
quel paese erano state uccise decine di migliaia di persone. Ma quei
civili, a centinaia, erano tutti disarmati. Era stato uno sterminio di
massa, un'atrocità, un episodio - con quanta facilità usavamo la parola
«episodio» in Libano - che andava ben oltre quella che in altre
circostanze gli israeliani avrebbero definito una strage terroristica.
Era stato un crimine di guerra.


Jenkins, Tveit e io eravamo talmente sopraffatti da ciò che avevamo
trovato a Shatila che all'inizio non riuscivamo neanche a renderci conto
di quanto fossimo sconvolti. Bill Foley dell'Ap era venuto con noi.
Mentre giravamo per le strade, l'unica cosa che riusciva a dire era
«Cristo santo!». Avremmo potuto accettare di trovare le tracce di
qualche omicidio, una dozzina di persone uccise nel fervore della
battaglia; ma nelle case c'erano donne stese con le gonne sollevate fino
alla vita e le gambe aperte, bambini con la gola squarciata, file di
ragazzi ai quali avevano sparato alle spalle dopo averli allineati lungo
un muro. C'erano neonati - tutti anneriti perché erano stati uccisi più
di ventiquattro ore prima e i loro corpicini erano già in stato di
decomposizione - gettati sui cumuli di rifiuti accanto alle scatolette
delle razioni dell'esercito americano, alle attrezzature mediche
israeliane e alle bottiglie di whisky vuote.


Dov'erano gli assassini? O per usare il linguaggio degli israeliani,
dov'erano i «terroristi»? Mentre andavamo a Shatila avevamo visto gli
israeliani in cima ai palazzi del viale Camille Chamoun, ma non avevano
cercato di fermarci. In effetti, eravamo andati prima al campo di Burj
al-Barajne perché qualcuno ci aveva detto che c'era stato un massacro.
Tutto quello che avevamo visto era un soldato libanese che inseguiva un
ladro d'auto in una strada. Fu solo mentre stavamo tornando indietro e
passavamo davanti all'entrata di Shatila che Jenkins decise di fermare
la macchina. «Non mi piace questa storia» disse. «Dove sono finiti
tutti? Che cavolo è quest'odore?»


Appena superato l'ingresso sud del campo, c'erano alcune case a un piano
circondate da muri di cemento. Avevo fatto tante interviste in quelle
casupole alla fine degli anni settanta. Quando varcammo la fangosa
entrata di Shatila vedemmo che tutte quelle costruzioni erano state
fatte saltare in aria con la dinamite. C'erano bossoli sparsi a terra
sulla strada principale. Vidi diversi candelotti di traccianti
israeliani, ancora attaccati ai loro minuscoli paracadute. Nugoli di
mosche aleggiavano tra le macerie, branchi di predoni che avevano
annusato la vittoria.


In fondo a un vicolo sulla nostra destra, a non più di cinquanta metri
dall'entrata, trovammo un cumulo di cadaveri. Erano più di una dozzina,
giovani con le braccia e le gambe aggrovigliate nell'agonia della morte.
A tutti avevano sparato a bruciapelo, alla guancia: la pallottola aveva
portato via una striscia di carne fino all'orecchio ed era poi entrata
nel cervello. Alcuni avevano cicatrici nere o rosso vivo sul lato
sinistro del collo. Uno era stato castrato, i pantaloni erano strappati
sul davanti e un esercito di mosche banchettava sul suo intestino
dilaniato.


Avevano tutti gli occhi aperti. Il più giovane avrà avuto dodici o
tredici anni. Portavano jeans e camicie colorate, assurdamente aderenti
ai corpi che avevano cominciato a gonfiarsi per il caldo. Non erano
stati derubati. Su un polso annerito, un orologio svizzero segnava l'ora
esatta e la lancetta dei minuti girava ancora, consumando inutilmente
le ultime energie rimaste sul corpo defunto.


Dall'altro lato della strada principale, risalendo un sentiero coperto
di macerie, trovammo i corpi di cinque donne e parecchi bambini. Le
donne erano tutte di mezza età ed erano state gettate su un cumulo di
rifiuti. Una era distesa sulla schiena, con il vestito strappato e la
testa di una bambina che spuntava sotto il suo corpo. La bambina aveva i
capelli corti, neri e ricci, dal viso corrucciato i suoi occhi ci
fissavano. Era morta.


Un'altra bambina era stesa sulla strada come una bambola gettata via,
con il vestitino bianco macchiato di fango e polvere. Non avrà avuto più
di tre anni. La parte posteriore della testa era stata portata via
dalla pallottola che le avevano sparato al cervello. Una delle donne
stringeva a sé un minuscolo neonato. La pallottola attraversandone il
petto aveva ucciso anche il bambino. Qualcuno le aveva squarciato la
pancia in lungo e in largo, forse per uccidere un altro bambino non
ancora nato. Aveva gli occhi spalancati, il volto scuro pietrificato
dall'orrore.


Tveit cercò di registrare tutto su una cassetta, parlando lentamente in
norvegese e in tono impassibile. «Ho trovato altri corpi, quelli di una
donna con il suo bambino. Sono morti. Ci sono altre tre donne. Sono
morte.»


Di tanto in tanto, premeva il bottone della pausa e si piegava per
vomitare nel fango della strada. Mentre esploravamo un vicolo, Foley,
Jenkins e io sentimmo il rumore di un cingolato. «Sono ancora qui» disse
Jenkins e mi fissò. Erano ancora lì. Gli assassini erano ancora nel
campo. La prima preoccupazione di Foley fu che i miliziani cristiani
potessero portargli via il rullino, l'unica prova - per quanto ne
sapesse - di quello che era successo. Cominciò a correre lungo il
vicolo.


Io e Jenkins avevamo paure più sinistre. Se gli assassini erano ancora
nel campo, avrebbero voluto eliminare i testimoni piuttosto che le prove
fotografiche. Vedemmo una porta di metallo marrone socchiusa; l'aprimmo
e ci precipitammo nel cortile, chiudendola subito dietro di noi.
Sentimmo il veicolo che si addentrava nella strada accanto, con i
cingoli che sferragliavano sul cemento. Jenkins e io ci guardammo
spaventati e poi capimmo che non eravamo soli. Sentimmo la presenza di
un altro essere umano. Era lì vicino a noi, una bella ragazza distesa
sulla schiena.


Era sdraiata lì come se stesse prendendo il sole, il sangue ancora umido
le scendeva lungo la schiena. Gli assassini se n'erano appena andati. E
lei era lì, con i piedi uniti, le braccia spalancate, come se avesse
visto il suo salvatore. Il viso era sereno, gli occhi chiusi, era una
bella donna, e intorno alla sua testa c'era una strana aureola: sopra di
lei passava un filo per stendere la biancheria e pantaloni da bambino e
calzini erano appesi. Altri indumenti giacevano sparsi a terra. Quando
gli assassini avevano fatto irruzione, probabilmente stava ancora
stendendo il bucato della sua famiglia. E quando era caduta, le mollette
che teneva in mano erano finite a terra formando un piccolo cerchio di
legno attorno al suo capo.


Solo il minuscolo foro che aveva sul seno e la macchia che si stava man
mano allargando indicavano che fosse morta. Perfino le mosche non
l'avevano ancora trovata. Pensai che Jenkins stesse pregando, ma
imprecava di nuovo e borbottava «Dio santo», tra una bestemmia e
l'altra. Provai tanta pena per quella donna. Forse era più facile
provare pietà per una persona giovane, così innocente, una persona il
cui corpo non aveva ancora cominciato a marcire. Continuavo a guardare
il suo volto, il modo ordinato in cui giaceva sotto il filo da bucato,
quasi aspettandomi che aprisse gli occhi da un momento all'altro.


Probabilmente quando aveva sentito sparare nel campo era andata a
nascondersi in casa. Doveva essere sfuggita all'attenzione dei miliziani
fino a quella mattina. Poi era uscita in giardino, non aveva sentito
nessuno sparo, aveva pensato che fosse tutto finito e aveva ripreso le
sue attività quotidiane. Non poteva sapere quello che era successo. A un
tratto qualcuno aveva aperto la porta, improvvisamente come avevamo
fatto noi, e gli assassini erano entrati e l'avevano uccisa. Senza
pensarci due volte. Poi se n'erano andati ed eravamo arrivati noi, forse
soltanto un minuto o due dopo.


Rimanemmo in quel giardino ancora per un po'. Io e Jenkins eravamo
spaventati. Come Tveit, che era momentaneamente scomparso, Jenkins era
un sopravvissuto. Mi sentivo al sicuro con lui. I miliziani - gli
assassini della ragazza - avevano violentato e accoltellato le donne di
Shatila e sparato agli uomini, ma sospettavo che avrebbero esitato a
uccidere Jenkins e l'americano avrebbe cercato di dissuaderli.
«Andiamocene via di qui» disse, e ce ne andammo. Fece capolino in strada
per primo, io lo seguii, chiudendo la porta molto piano perché non
volevo disturbare la donna morta, addormentata, con la sua aureola di
mollette da bucato.


Foley era tornato sulla strada vicino all'entrata del campo. Il
cingolato era scomparso, anche se sentivo che si spostava sulla strada
principale esterna, in direzione degli israeliani che ci stavano ancora
osservando. Jenkins sentì Tveit urlare da dietro una catasta di cadaveri
e lo persi di vista. Continuavamo a perderci di vista dietro i cumuli
di cadaveri. Un attimo prima stavo parlando con Jenkins, un attimo dopo
mi giravo e scoprivo che mi stavo rivolgendo a un ragazzo, riverso sul
pilastro di una casa con le braccia penzoloni dietro la testa.


Sentivo le voci di Jenkins e Tveit a un centinaio di metri di distanza,
dall'altra parte di una barricata coperta di terra e sabbia che era
stata appena eretta da un bulldozer. Sarà stata alta più di tre metri e
mi arrampicai con difficoltà su uno dei lati, con i piedi che
scivolavano nel fango. Quando ormai ero arrivato quasi in cima persi
l'equilibrio e per non cadere mi aggrappai a una pietra rosso scuro che
sbucava dal terreno. Ma non era una pietra. Era viscida e calda e mi
rimase appiccicata alla mano. Quando abbassai gli occhi vidi che mi ero
attaccato a un gomito che sporgeva dalla terra, un triangolo di carne e
ossa.


Lo lasciai subito andare, inorridito, pulendomi i resti di carne morta
sui pantaloni, e finii di salire in cima alla barricata barcollando. Ma
l'odore era terrificante e ai miei piedi c'era un volto al quale mancava
metà bocca, che mi fissava. Una pallottola o un coltello gliel'avevano
portata via, quello che restava era un nido di mosche. Cercai di non
guardarlo. In lontananza, vedevo Jenkins e Tveit in piedi accanto ad
altri cadaveri davanti a un muro, ma non potevo chiedere aiuto perché
sapevo che se avessi aperto la bocca per gridare avrei vomitato.


Salii in cima alla barricata cercando disperatamente un punto che mi
consentisse di saltare dall'altra parte. Ma non appena facevo un passo,
la terra mi franava sotto i piedi. L'intero cumulo di fango si muoveva e
tremava sotto il mio peso come se fosse elastico e, quando guardai giù
di nuovo, vidi che solo uno strato sottile di sabbia copriva altre
membra e altri volti. Mi accorsi che una grossa pietra era in realtà uno
stomaco. Vidi la testa di un uomo, il seno nudo di una donna, il piede
di un bambino. Stavo camminando su decine di cadaveri che si muovevano
sotto i miei piedi.


I corpi erano stati sepolti da qualcuno in preda al panico. Erano stati
spostati con un bulldozer al lato della strada. Anzi, quando sollevai lo
sguardo vidi il bulldozer - con il posto di guida vuoto - parcheggiato
con aria colpevole in fondo alla strada.


Mi sforzavo invano di non camminare sulle facce che erano sotto di me.
Provavamo tutti un profondo rispetto per i morti, perfino lì e in quel
momento. Continuavo a dirmi che quei cadaveri mostruosi non erano miei
nemici, quei morti avrebbero approvato il fatto che fossi lì, avrebbero
voluto che io, Jenkins e Tveit vedessimo tutto questo, e quindi non
dovevo avere paura di loro. Ma non avevo mai visto tanti cadaveri in
tutta la mia vita.


Saltai giù e corsi verso Jenkins e Tveit. Suppongo che stessi
piagnucolando come uno scemo perché Jenkins si girò. Sorpreso. Ma appena
aprii la bocca per parlare, entrarono le mosche. Le sputai fuori. Tveit
vomitava. Stava guardando quelli che sembravano sacchi davanti a un
basso muro di pietra. Erano tutti allineati, giovani uomini e ragazzi,
stesi a faccia in giù. Gli avevano sparato alla schiena mentre erano
appoggiati al muro e giacevano lì dov'erano caduti, una scena patetica e
terribile.


Quel muro e il mucchio di cadaveri mi ricordavano qualcosa che avevo già
visto. Solo più tardi mi sarei reso conto di quanto assomigliassero
alle vecchie fotografie scattate nell'Europa occupata durante la Seconda
guerra mondiale. Ci sarà stata una ventina di corpi. Alcuni nascosti da
altri. Quando mi inchinai per guardarli più da vicino notai la stessa
cicatrice scura sul lato sinistro del collo. Gli assassini dovevano aver
marchiato i prigionieri da giustiziare in quel modo. Un taglio sulla
gola con il coltello significava che l'uomo era un terrorista da
giustiziare immediatamente. Mentre eravamo lì sentimmo un uomo gridare
in arabo dall'altra parte delle macerie: «Stanno tornando». Così
corremmo spaventati verso la strada. A ripensarci, probabilmente era la
rabbia che ci impediva di andarcene, perché ci fermammo all'ingresso del
campo per guardare in faccia alcuni responsabili di quello che era
successo. Dovevano essere arrivati lì con il permesso degli israeliani.
Dovevano essere stati armati da loro. Chiaramente quel lavoro era stato
controllato - osservato attentamente - dagli israeliani, dagli stessi
soldati che guardavano noi con i binocoli da campo.


Sentimmo un altro mezzo corazzato sferragliare dietro un muro a ovest -
forse erano falangisti, forse israeliani - ma non apparve nessuno. Così
proseguimmo. Era sempre la stessa scena. Nelle casupole di Shatila,
quando i miliziani erano entrati dalla porta, le famiglie si erano
rifugiate nelle camere da letto ed erano ancora tutti lì, accasciati sui
materassi, spinti sotto le sedie, scaraventati sulle pentole. Molte
donne erano state violentate, i loro vestiti giacevano sul pavimento, i
corpi nudi gettati su quelli dei loro mariti o fratelli, adesso tutti
neri di morte.


C'era un altro vicolo in fondo al campo dove un bulldozer aveva lasciato
le sue tracce sul fango. Seguimmo quelle orme fino a quando non
arrivammo a un centinaio di metri quadrati di terra appena arata. Sul
terreno c'era un tappeto di mosche e anche lì si sentiva il solito,
leggero, terribile odore dolciastro. Vedendo quel posto, sospettammo
tutti di che cosa si trattasse, una fossa comune scavata in fretta.
Notammo che le nostre scarpe cominciavano ad affondare nel terreno, che
sembrava liquido, quasi acquoso e tornammo indietro verso il sentiero
tracciato dal bulldozer, terrorizzati.


Un diplomatico norvegese - un collega di Ane-Karina Arveson - aveva
percorso quella strada qualche ora prima e aveva visto un bulldozer con
una decina di corpi nella pala, braccia e gambe che penzolavano fuori
dalla cassa. Chi aveva ricoperto quella fossa con tanta solerzia? Chi
aveva guidato il bulldozer? Avevamo una sola certezza: gli israeliani lo
sapevano, lo avevano visto accadere, i loro alleati - i falangisti o i
miliziani di Haddad - erano stati mandati a Shatila a commettere quello
sterminio di massa. Era il più grave atto di terrorismo - il più grande
per dimensioni e durata, commesso da persone che potevano vedere e
toccare gli innocenti che stavano uccidendo - della storia recente del
Medio Oriente.


Incredibilmente, c'erano alcuni sopravvissuti. Tre bambini piccoli ci
chiamarono da un tetto e ci dissero che durante il massacro erano
rimasti nascosti. Alcune donne in lacrime ci gridarono che i loro uomini
erano stati uccisi. Tutti dissero che erano stati i miliziani di Haddad
e i falangisti, descrissero accuratamente i diversi distintivi con
l'albero di cedro delle due milizie.


Sulla strada principale c'erano altri corpi. «Quello era il mio vicino,
il signor Nuri» mi gridò una donna. «Aveva novant'anni.» E lì sul
marciapiede, sopra un cumulo di rifiuti, era disteso un uomo molto
anziano con una sottile barba grigia e un piccolo berretto di lana
ancora in testa. Un altro vecchio giaceva davanti a una porta in
pigiama, assassinato qualche ora prima mentre cercava di scappare.
Trovammo anche alcuni cavalli morti, tre grossi stalloni bianchi che
erano stati uccisi con una scarica di mitra davanti a una casupola, uno
di questi aveva uno zoccolo appoggiato al muro, forse aveva cercato di
saltare per mettersi in salvo mentre i miliziani gli sparavano.


C'erano stati scontri nel campo. La strada vicino alla moschea di Sabra
era diventata sdrucciolevole per quanto era coperta di bossoli e nastri
di munizioni, alcuni dei quali erano di fattura sovietica, come quelli
usati dai palestinesi. I pochi uomini che possedevano ancora un'arma
avevano cercato di difendere le loro famiglie. Nessuno avrebbe mai
conosciuto la loro storia. Quando si erano accorti che stavano
massacrando il loro popolo? Come avevano fatto a combattere con così
poche armi? In mezzo alla strada, davanti alla moschea, c'era un
kalashnikov giocattolo di legno in scala ridotta, con la canna spezzata
in due.


Camminammo in lungo e in largo per il campo, trovando ogni volta altri
cadaveri, gettati nei fossi, appoggiati ai muri, allineati e uccisi a
colpi di mitra. Cominciammo a riconoscere i corpi che avevamo già visto.
Laggiù c'era la donna con la bambina in braccio, ecco di nuovo il
signor Nuri, disteso sulla spazzatura al lato della strada. A un certo
punto, guardai con attenzione la donna con la bambina perché mi sembrava
quasi che si fosse mossa, che avesse assunto una posizione diversa. I
morti cominciavano a diventare reali ai nostri occhi.
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Sabra e Chatila. Per non dimenticare. :: Commenti

trek2005

Messaggio Lun Set 17, 2012 8:30 am  trek2005

impressionante...

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Roberto

Messaggio Lun Set 17, 2012 9:25 am  Roberto

Valzer per Bashir, un film di un israeliano che racconta i fatti visti da uno che ha contribuito alla strage e, in qualche modo, si è pentito. Sono disegni animati ben diversi da quelli a cui siamo abituati. Niente effetti sopeciali, animazioine semplificata e quasi mancanza di colori, ma il film è bello e terribile.



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LucaVi

Messaggio Lun Set 17, 2012 11:48 am  LucaVi

Non mi dimentico, nel mio piccolo, di Piazza Fontana, come potrei dimenticarmi della strage di Sabra e Chatila? Impunito, questo enorme orrore, quanto quello più limitato alla nostra strategia della tensione.

Penso alla differenza tuttora camuffata dai media e dai politici occidentali tra terrorismo dei singoli e terrorismo di stato. Sharon ha potuto governare ancora a lungo...!!!

E penso al poeta Jean Genet, che entrò tra i primi nei campi profughi sterminati dai cristiani falangisti con la supervisione dei soldati israeliani e si batté coerentemente in favore del popolo palestinese. Tanto che quando parlava loro della rivoluzione e di una nuova società in cui per esempio anche l'omosessualità avrebbe avuto normale cittadinanza, e gli stessi arabi gli rispondevano che manco per il cazzo... lui replicò qualcosa del genere: va be', poi ci vorrà anche una rivoluzione contro le vostre idee ottuse, ma intanto facciamo la rivoluzione contro questi sanguinari oppressori.

Insomma, continuo a pensarci proprio in questi giorni in cui l'islam, oltre all'occidente, mi fa paura. Ma da Sabra e Chatila comunque non scappo, non la dimentico. E sto con i palestinesi.

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