La giraffa della libertà
:: Blog :: Riflessioni impulsive
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021012
La giraffa della libertà
Bellissimo articolo. Vale la pena leggerlo.
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“La giraffa ha il cuore / lontano dai pensieri. / Si è innamorata ieri / e ancora non lo sa” (Stefano Benni)
“Mi vergogno molto, io – umano” (Wislawa Szymborska, “Gli animali del circo”)
Il suo cuore era piccolo – dicono. E la sua paura
grandissima: una paura sconfinata come l’idea della savana – e questo è
sicuro: la paura è nelle foto che raccontano della sua poca libertà e
della sua mite furia e della sua triste uccisione. E’ piccolo il cuore
di una giraffa, ed è misterioso: quei dodici chili miracolosamente
sospesi, come il soffio vitale della bestia che abita nell’Ecclesiaste,
lì a metà del suo corpo smisurato, a più di due metri dal cervello. Ed è
un mistero, il cuore della giraffa: di come vada il suo sangue, di come
il suo sangue salga. E’ un cuore che sobbalza spesso, quello della
giraffa: un cuore all’erta, un cuore sempre sul limitare di una fuga – e
chissà che tumulto, dentro quel cuore, quando, raccontano certe
leggende, vide per prima la terra dall’arca dopo il diluvio. Ha lo
sguardo lungo, la giraffa – giunge fin dove il nostro sguardo solo
domani arriverà. Forse per questo il suo cuore trema sempre: come quello
di una sentinella biblica che sa a che punto può arrivare la nostra
notte. Si sognano poco le giraffe. Non ne parlano né poeti né
psicanalisti. In genere, nei sogni siamo sempre aquile. O tigri
temerarie. O topini spaventati. Con il cuore che batte per rabbia o
terrore o (magari) per amore. Ma ecco, giraffe mai. Dovremmo sognare più
spesso la giraffa. Dovremmo sognare la giraffa uccisa a Imola. E
dovremmo, come successe alla grande poetessa polacca davanti a un
malvagio spettacolo di animali in un circo, vergognarci molto – noi
umani.
http://www.ilfoglio.it/soloqui/15129
(“Il funzionamento del cuore e del sistema circolatorio della giraffa,
che conducono il sangue contro la gravità a un’altezza così notevole al
di sopra del cuore, si dimostrò abbastanza sorprendente quando ci si
pensò”. James V. Warren, “La fisiologia della giraffa”. Scientific
American, febbraio 1975). Un cuore piccolo e complicato e tremante. A
volte, purtroppo, non così piccolo – e sciaguratamente non tremante –
come quello degli uomini: ché certi di noi (a proporzione, a saggio di
Scientific American, a pretesa ingordigia teologica) il cuore piccolo
non hanno – ma rattrappito sì, essiccato e svuotato (come di mummia
egizia, come di sacrificale mummmia incas), con sordo battito di frusta.
Un cuore tragicamente abitudinario. Così, tra pochi giorni nessuno avrà
più nella testa e negli occhi la disperata e meravigliosa fuga di
Alexandre – quel suo percuotere di zoccoli a terra (macché terra: è
cemento, è asfalto; mica terra, mica erba) e quel suo lanciare sguardi
intorno al mondo circostante: figurine umane, macchinine insignificanti,
insegne abbaglianti – il mondo circostante che la imprigionava, che la
legava, che la cacciava, tutta una vita a fare la preda, preda anche per
gli occhi degli spettatori – alla cassa, signori, se volete vedere una
creatura rubata alla sua esistenza! alla cassa! – su quella striminzita
pista di circo, dentro l’oscena gabbia.
Un mondo senza meraviglie –
quasi incapace di concepire la meraviglia, di riconoscerla persino – ha
messo dietro le sbarre e nelle mani di un domatore la sua breve,
infelice vita. Ciò che ad Alexandre è stato da noi fatto dovrebbe
causare ben e più infinita vergogna; ciò che la piccola giraffa è stata
capace di fare di se stessa dovrebbe riempire di stupore e ammirazione.
Resiste, corre, non si arrende – il suo cuore matto e frenetico in modo
quasi magico ha elaborato l’unica via di fuga rimasta. Non è vero che il
cuore e il cervello faticano a comunicare: certi sì, ma non il suo
cuore e il suo cervello – e anzi il suo cuore ha chiaramente detto al
suo cervello cosa fare: non consegnarsi mai più da prigioniera, non
rientrare mai più nella gabbia, non accettare mai più corde alle gambe e
al collo. Fare l’unica scelta che a un essere ferito o stanco o
impaurito – e libero e fiero e intelligente – è concessa: sottrarsi ai
sequestratori sottraendosi alla propria vita. Quasi come Thelma e
Louise, Alexandre – davanti a quel fottuto Gran Canyon, e peggio ancora,
anzi: ché qui non c’è cielo, non c’è spazio, non c’è aria. Quasi come
l’alchimista Zenone che non vuole restare nelle mani dell’inquisizione –
faccio della mia vita quello che voglio io, perché non ne facciate più
quello che volete voi. Come certi cani che si lasciano morire quando il
loro padrone (padrone: buffo come le parole mutino nel mutare del
contesto) è già morto. Così, cuore, smetti di battere di paura. Smetti
di pompare sangue solo per avidità e stupidità altrui. Occhi, smettete
di cercare: non è qui la savana, ho capito non la troverò dietro quel
palazzo, non la troverò più, non basta sfuggire allo stralunato
poliziotto che mi corre davanti…
Bisogna vederle bene, quelle foto che raccontano la pubblica agonia di Alexandre.
Fare i conti con la sua bella furia, confrontarla con il misero
apparato di carabine per sparare sonniferi e corde e gabbie e
carabinieri (pare una battuta: una gazzella dei cc che insegue una
giraffa) e passanti incuriositi e il furgone giallo dei carcerieri
legittimati a riprenderla e un paesaggio desolante di mestizia urbana.
Avete visto, guardate bene!, quelle gambe lunghissime e quel collo
smisurato? E l’arcipelago sulla sua pelle? Cinque metri, cinque metri e
mezzo. Noi umani non sappiamo sfiorare il cielo così. Come fa a stare in
una gabbia, a ciondolare su un’insignificante pista, come fa la sua
testa che da qualche parte ha memorizzato un mondo sconfinato a
resistere a luci e musiche? E allora, sul piazzale di un fottuto
supermercato, fottutissimi capannoni, Alexandre ha preso la rincorsa –
cuore a molla, sangue e cervello e cuore, zoccoli che cercano
disperatamente e fino alla fine erba e terra, gli alberi così minuscoli,
insignificanti – come si può vivere così? E gente che urla e sbirri che
fronteggiano e sequestratori che si rifanno avanti… Lassù, gli occhi
della giraffa vedono ciò che certo riconoscono: le corde, le sbarre, le
voci umane così spaventevoli. Sono sopra a tutto, i suoi occhi – e tutto
vedono: sentinella di se stessa, della sua notte che sta per
ricominciare. Tutti pigiano addosso: sulla sua pelle con i disegni di
mosaici misteriosi (che forse i suoi simili sanno leggere e decifrare:
c’è forse il nome, lì? il creatore ha forse scritto lì il suo destino?),
sul suo corpo sghembo e gigantesco e innocuo – quel suo corpo che ha
percorso la terra prima che l’uomo ci fosse, e che ci sarà quando
l’ultimo uomo sarà ormai andato via. E’ divina: ci ha preceduti e ci
seguirà. Respira, respira, respira: è come un vento, ora, il suo
respiro. (“La giraffa risolve questo problema con un’iperventilazione,
respirando più profondamente e più liberamente dell’uomo. Si è scoperto
che le giraffe, anche in riposo, hanno un numero di respiri al minuto
maggiore di 20, mentre il valore corrispondente nell’uomo varia tra 12 e
15”). Esistono certo le lacrime della giraffa: basta guardare quelle
foto, per accorgersene.
C’è uno stupore (ma dove sarà la savana, dove
poter correre e scappare e nascondersi? dove l’hanno messa, la savana?)
che foto dopo foto sconfina nel dolore, poi quel dolore diventa
abbandono – e forse un guizzo, un ultimo guizzo, sarebbe bello che fosse
il sorriso della giraffa: pensare di avercela fatta ancora una volta, e
invece no, non sarà così, inutile farsi illusioni. “Le vostre stupide
carabine, le vostre stupide divise, le vostre stupide macchinine, i
vostri stupidi capannoni, i vostri stupidi telefonini, con i quali ora
mi rubate per l’ultima volta, la morte dopo la vita: qui, su questo
merdoso piazzale, io che sarei morta nel silenzio sconfinato… Ora so
come non avere più paura di voi…”. Un poliziotto pietoso (unico gesto di
pietà) allunga una carezza sulla testa fiera e ora china. Cade addosso a
una rete, le gambe che sembrano rami spezzati di un albero gigantesco.
Si rialza con fatica.
Tutto gira attorno, aghi con strani fiocchi
colorati infilati nella pelle, gli occhi aperti a fatica, le gambe si
piegano ancora: la bestia è umiliata, a terra, la sua tonnellata di peso
che cede, come un bosco che di colpo sprofonda, cercano di spingerla
verso una gabbia, mani che si agitano minacciose intorno, il respiro
sempre più forte – vento, vento, vento; il cuore è ormai impazzito –
vento, vento, vento; la pressione sanguigna sembra lacerare la mappa
misteriosa della pelle, ogni pezzo del mosaico che pare volare verso il
cielo – vento tra le corna morbide, vento tra le gambe smisurate, vento
sulla lingua viola… C’è una foto raccapricciante: una piccola folla
grottesca con apporto di carabinieri e poliziotti e polizia provinciale
(ma chi dovevano prendere, Bin Laden?) cerca di spintonare la
spaventatissima giraffa dentro un camion, schiacciandole addosso delle
pedane di legno.
Più in là, qualcuno allunga una scala e imprigiona il
suo bellissimo collo, appena al di sotto della testa. Al centro, un uomo
con una corda in mano. E’ quella scala (come un cappio, ulteriore
prepotenza tra già innumerevoli prepotenze) il centro del disagio che
questa foto genera: guardate gli occhi della giraffa, il suo ultimo
sguardo – sta per morire: è perso, stremato, con la scala che chiude la
gola, quelle pedane di legno che chiudono il petto, gli urli che
chiudono il cuore. Succede di morire inaspettatamente, a uomini e
bestie; ma succede anche a volte di capire che non c’è altra scelta –
l’unica libertà che rimane, la libertà che ci piace credere che
Alexandre si sia presa. L’unica strada rimasta aperta verso la savana.
Un suicidio, l’estremo atto della sua libertà confiscata, finirebbe col
renderci ancora più vergognosi. Per capire bisognerebbe essere sempre
forti e dolenti come Anna Maria Ortese con la cagnetta Laika, quella
spedita a perdersi e a morire tra le stelle. “Ritorna! E perdonaci!” –
le scriveva. Ecco, Alexandre, che tornare non puoi (e certo tornare tra
noi non vuoi): se esiste una savana come il nostro fantasioso paradiso, e
corri adesso senza il terrore delle corde e delle sbarre, il cuore che
finalmente danza lieve senza sbandare – ecco, anche tu, perdonaci.
Se Alexandre ha scelto di morire – lasciando andare
via per sempre il battito doloroso, ritrovando infine quella sorta di
leggerezza che si scopre quando la paura è così forte che è ormai
inutile avere paura – ha fatto bene. Si è difesa con l’unica arma che
tante volte resta ai più indifesi e deboli. Del resto, cosa ha mai
perso, quaggiù? Le stupide esibizioni sotto il tendone – quella pena di
bestie umiliate e costrette a gesti innaturali, la ferocia della frusta
che schiocca, quell’apparenza di divertimento che nasconde un lungo
abuso su creature ridotte a prede da addomesticare. Deve far passerella
sotto le luci una giraffa? Inchinarsi un elefante? Stare su uno sgabello
una tigre? Un ergastolo e una catena indistruttibile, per queste bestie
degli spazi sconfinati che noi facciamo fatica anche solo a immaginare,
create per corse di chilometri e chilometri, solo vento e cielo
intorno. Si può dare senso a una vita tra le sbarre – a instupidirsi in
gesti replicati uguali per anni e anni: mai la possibilità di ritrovare
la libertà, mai un po’ di misericordia per loro? Cosa c’è di educativo
nella paura di una furibonda tigre? Nella giraffa immensa che quasi non
può allungare le gambe? Nella prigionia di un maestoso elefante? Da
quale sprofondo della nostra insensibilità arriva questa pacifica e
colpevole indifferenza, come possa resistere e come possiamo con essa
convivere, resta un mistero – “il dolore degli altri è sempre dolore a
metà”, come nella canzone di De André, e viene da pensare: il dolore di
tutte le altre creature, oltre al nostro. Eravamo solo i custodi, siamo
diventati i saccheggiatori. Wislawa Szymborska vide una volta al circo
orsi battere le zampe, scimmie in bicicletta, leoni che saltavano il
fuoco, elefanti con il vaso in testa, cagnolini ballare. E appunto
vergogna, come essere umano, la poetessa premio Nobel provò.
“Divertimento pessimo quel giorno: / gli applausi scrociavano a cascata,
/ benché la mano più lunga di una frusta / gettasse sulla sabbia
un’ombra affilata”. Come incomprensibile appare la sorprendente mestizia
estiva di Rai Tre, che sempre fa la colta e l’intelligente, infarcita
di polverosi e frastornanti e crudeli spettacoli circensi, sagra paesana
luccicante: ma la frusta s’intravede, dietro le luci che sfavillano…
Forse, l’irrompere nel nostro quotidiano di una bestia in fuga –
sono così tante: da inutili zoo, da scannatoi legali: una mucca, per
sfuggire al macello, è scappata dentro un ospedale – e una bestia in
fuga è sempre un bellissimo (immeritato) dono alla nostra scarsa
fantasia e al nostro faticoso stupore. Una bestia in fuga ha una sorta
di forza divina e di bellezza indecifrabile: sfuggire alle sbarre, alla
frusta, al coltello dello scannatore. E’ come provare a ristabile un
minimo di ordine, una logica, almeno un piccolo principio di pietà – in
un mondo dove spesso ordine e logica e pietà sembrano confondersi e
scomparire: è la sentinella che urla al buio che ci avvolge. Come il
cervo con la croce tra le corna che appare a sant’Eustachio – pagano e
cacciatore – nel dipinto di Pisanello: e intorno a lui lepri e
cerbiatti e orsi e gru e uccelli: le vittime di quell’uomo che la sua
apparizione ora blocca. C’è sempre modo, del resto, di cavare un
insegnamento. Si è visto un filmato dove un maialino salva una capretta
che sta per affogare: osservate e valutate altre immagini di questi
giorni, dove l’umano malamente si faceva porco, quasi una riprova
dell’indiscussa superiorità di buongusto e civiltà della nobile razza
suina.
Sarebbe bello che qualcosa restasse, dell’ultima corsa e della
spaventosa morte della giraffa Alexandre. Si potrebbe fare così: in
autunno, sicuro come ogni anno, ripartirà la protesta studentesca. Buone
o sbagliate che siano le ragioni, di solito i ragazzi hanno bella
fantasia nello scegliere il nome del loro (annuale) movimento. Che una
volta prese il nome di Pantera – essendo stata a lungo avvistata, forse
davvero, forse leggenda metropolitana, una pantera nei dintorni di Roma.
Non fu, per fortuna, mai catturata. O forse non è mai esistita, ma è
stata capace di accendere la fantasia. La giraffa di Imola invece è
esistita davvero, e davvero ha avuto paura e morte davanti ai nostri
occhi. Perché voleva scappare, perché cercava la savana che noi le
avevamo rubato. La bellezza della sua fuga è stata una bellezza piena,
di cuore e di sguardi, e una fenomenale lezione di vita – e quando ha
ceduto lo ha fatto eroicamente, senza più permettere a qualcuno di
legarla. Ecco, come c’era il Movimento della Pantera, adesso si potrebbe
far nascere il Movimento della Giraffa (ancora “un sogno che ti assolve
per un breve istante” – sempre W. S.). Così che possa continuare ancora
a lungo la corsa inviolabile e magnifica di Alexandre – la Giraffa che
voleva essere libera, o almeno libera di morire.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Stefano Di Michele
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“La giraffa ha il cuore / lontano dai pensieri. / Si è innamorata ieri / e ancora non lo sa” (Stefano Benni)
“Mi vergogno molto, io – umano” (Wislawa Szymborska, “Gli animali del circo”)
Il suo cuore era piccolo – dicono. E la sua paura
grandissima: una paura sconfinata come l’idea della savana – e questo è
sicuro: la paura è nelle foto che raccontano della sua poca libertà e
della sua mite furia e della sua triste uccisione. E’ piccolo il cuore
di una giraffa, ed è misterioso: quei dodici chili miracolosamente
sospesi, come il soffio vitale della bestia che abita nell’Ecclesiaste,
lì a metà del suo corpo smisurato, a più di due metri dal cervello. Ed è
un mistero, il cuore della giraffa: di come vada il suo sangue, di come
il suo sangue salga. E’ un cuore che sobbalza spesso, quello della
giraffa: un cuore all’erta, un cuore sempre sul limitare di una fuga – e
chissà che tumulto, dentro quel cuore, quando, raccontano certe
leggende, vide per prima la terra dall’arca dopo il diluvio. Ha lo
sguardo lungo, la giraffa – giunge fin dove il nostro sguardo solo
domani arriverà. Forse per questo il suo cuore trema sempre: come quello
di una sentinella biblica che sa a che punto può arrivare la nostra
notte. Si sognano poco le giraffe. Non ne parlano né poeti né
psicanalisti. In genere, nei sogni siamo sempre aquile. O tigri
temerarie. O topini spaventati. Con il cuore che batte per rabbia o
terrore o (magari) per amore. Ma ecco, giraffe mai. Dovremmo sognare più
spesso la giraffa. Dovremmo sognare la giraffa uccisa a Imola. E
dovremmo, come successe alla grande poetessa polacca davanti a un
malvagio spettacolo di animali in un circo, vergognarci molto – noi
umani.
http://www.ilfoglio.it/soloqui/15129
(“Il funzionamento del cuore e del sistema circolatorio della giraffa,
che conducono il sangue contro la gravità a un’altezza così notevole al
di sopra del cuore, si dimostrò abbastanza sorprendente quando ci si
pensò”. James V. Warren, “La fisiologia della giraffa”. Scientific
American, febbraio 1975). Un cuore piccolo e complicato e tremante. A
volte, purtroppo, non così piccolo – e sciaguratamente non tremante –
come quello degli uomini: ché certi di noi (a proporzione, a saggio di
Scientific American, a pretesa ingordigia teologica) il cuore piccolo
non hanno – ma rattrappito sì, essiccato e svuotato (come di mummia
egizia, come di sacrificale mummmia incas), con sordo battito di frusta.
Un cuore tragicamente abitudinario. Così, tra pochi giorni nessuno avrà
più nella testa e negli occhi la disperata e meravigliosa fuga di
Alexandre – quel suo percuotere di zoccoli a terra (macché terra: è
cemento, è asfalto; mica terra, mica erba) e quel suo lanciare sguardi
intorno al mondo circostante: figurine umane, macchinine insignificanti,
insegne abbaglianti – il mondo circostante che la imprigionava, che la
legava, che la cacciava, tutta una vita a fare la preda, preda anche per
gli occhi degli spettatori – alla cassa, signori, se volete vedere una
creatura rubata alla sua esistenza! alla cassa! – su quella striminzita
pista di circo, dentro l’oscena gabbia.
Un mondo senza meraviglie –
quasi incapace di concepire la meraviglia, di riconoscerla persino – ha
messo dietro le sbarre e nelle mani di un domatore la sua breve,
infelice vita. Ciò che ad Alexandre è stato da noi fatto dovrebbe
causare ben e più infinita vergogna; ciò che la piccola giraffa è stata
capace di fare di se stessa dovrebbe riempire di stupore e ammirazione.
Resiste, corre, non si arrende – il suo cuore matto e frenetico in modo
quasi magico ha elaborato l’unica via di fuga rimasta. Non è vero che il
cuore e il cervello faticano a comunicare: certi sì, ma non il suo
cuore e il suo cervello – e anzi il suo cuore ha chiaramente detto al
suo cervello cosa fare: non consegnarsi mai più da prigioniera, non
rientrare mai più nella gabbia, non accettare mai più corde alle gambe e
al collo. Fare l’unica scelta che a un essere ferito o stanco o
impaurito – e libero e fiero e intelligente – è concessa: sottrarsi ai
sequestratori sottraendosi alla propria vita. Quasi come Thelma e
Louise, Alexandre – davanti a quel fottuto Gran Canyon, e peggio ancora,
anzi: ché qui non c’è cielo, non c’è spazio, non c’è aria. Quasi come
l’alchimista Zenone che non vuole restare nelle mani dell’inquisizione –
faccio della mia vita quello che voglio io, perché non ne facciate più
quello che volete voi. Come certi cani che si lasciano morire quando il
loro padrone (padrone: buffo come le parole mutino nel mutare del
contesto) è già morto. Così, cuore, smetti di battere di paura. Smetti
di pompare sangue solo per avidità e stupidità altrui. Occhi, smettete
di cercare: non è qui la savana, ho capito non la troverò dietro quel
palazzo, non la troverò più, non basta sfuggire allo stralunato
poliziotto che mi corre davanti…
Bisogna vederle bene, quelle foto che raccontano la pubblica agonia di Alexandre.
Fare i conti con la sua bella furia, confrontarla con il misero
apparato di carabine per sparare sonniferi e corde e gabbie e
carabinieri (pare una battuta: una gazzella dei cc che insegue una
giraffa) e passanti incuriositi e il furgone giallo dei carcerieri
legittimati a riprenderla e un paesaggio desolante di mestizia urbana.
Avete visto, guardate bene!, quelle gambe lunghissime e quel collo
smisurato? E l’arcipelago sulla sua pelle? Cinque metri, cinque metri e
mezzo. Noi umani non sappiamo sfiorare il cielo così. Come fa a stare in
una gabbia, a ciondolare su un’insignificante pista, come fa la sua
testa che da qualche parte ha memorizzato un mondo sconfinato a
resistere a luci e musiche? E allora, sul piazzale di un fottuto
supermercato, fottutissimi capannoni, Alexandre ha preso la rincorsa –
cuore a molla, sangue e cervello e cuore, zoccoli che cercano
disperatamente e fino alla fine erba e terra, gli alberi così minuscoli,
insignificanti – come si può vivere così? E gente che urla e sbirri che
fronteggiano e sequestratori che si rifanno avanti… Lassù, gli occhi
della giraffa vedono ciò che certo riconoscono: le corde, le sbarre, le
voci umane così spaventevoli. Sono sopra a tutto, i suoi occhi – e tutto
vedono: sentinella di se stessa, della sua notte che sta per
ricominciare. Tutti pigiano addosso: sulla sua pelle con i disegni di
mosaici misteriosi (che forse i suoi simili sanno leggere e decifrare:
c’è forse il nome, lì? il creatore ha forse scritto lì il suo destino?),
sul suo corpo sghembo e gigantesco e innocuo – quel suo corpo che ha
percorso la terra prima che l’uomo ci fosse, e che ci sarà quando
l’ultimo uomo sarà ormai andato via. E’ divina: ci ha preceduti e ci
seguirà. Respira, respira, respira: è come un vento, ora, il suo
respiro. (“La giraffa risolve questo problema con un’iperventilazione,
respirando più profondamente e più liberamente dell’uomo. Si è scoperto
che le giraffe, anche in riposo, hanno un numero di respiri al minuto
maggiore di 20, mentre il valore corrispondente nell’uomo varia tra 12 e
15”). Esistono certo le lacrime della giraffa: basta guardare quelle
foto, per accorgersene.
C’è uno stupore (ma dove sarà la savana, dove
poter correre e scappare e nascondersi? dove l’hanno messa, la savana?)
che foto dopo foto sconfina nel dolore, poi quel dolore diventa
abbandono – e forse un guizzo, un ultimo guizzo, sarebbe bello che fosse
il sorriso della giraffa: pensare di avercela fatta ancora una volta, e
invece no, non sarà così, inutile farsi illusioni. “Le vostre stupide
carabine, le vostre stupide divise, le vostre stupide macchinine, i
vostri stupidi capannoni, i vostri stupidi telefonini, con i quali ora
mi rubate per l’ultima volta, la morte dopo la vita: qui, su questo
merdoso piazzale, io che sarei morta nel silenzio sconfinato… Ora so
come non avere più paura di voi…”. Un poliziotto pietoso (unico gesto di
pietà) allunga una carezza sulla testa fiera e ora china. Cade addosso a
una rete, le gambe che sembrano rami spezzati di un albero gigantesco.
Si rialza con fatica.
Tutto gira attorno, aghi con strani fiocchi
colorati infilati nella pelle, gli occhi aperti a fatica, le gambe si
piegano ancora: la bestia è umiliata, a terra, la sua tonnellata di peso
che cede, come un bosco che di colpo sprofonda, cercano di spingerla
verso una gabbia, mani che si agitano minacciose intorno, il respiro
sempre più forte – vento, vento, vento; il cuore è ormai impazzito –
vento, vento, vento; la pressione sanguigna sembra lacerare la mappa
misteriosa della pelle, ogni pezzo del mosaico che pare volare verso il
cielo – vento tra le corna morbide, vento tra le gambe smisurate, vento
sulla lingua viola… C’è una foto raccapricciante: una piccola folla
grottesca con apporto di carabinieri e poliziotti e polizia provinciale
(ma chi dovevano prendere, Bin Laden?) cerca di spintonare la
spaventatissima giraffa dentro un camion, schiacciandole addosso delle
pedane di legno.
Più in là, qualcuno allunga una scala e imprigiona il
suo bellissimo collo, appena al di sotto della testa. Al centro, un uomo
con una corda in mano. E’ quella scala (come un cappio, ulteriore
prepotenza tra già innumerevoli prepotenze) il centro del disagio che
questa foto genera: guardate gli occhi della giraffa, il suo ultimo
sguardo – sta per morire: è perso, stremato, con la scala che chiude la
gola, quelle pedane di legno che chiudono il petto, gli urli che
chiudono il cuore. Succede di morire inaspettatamente, a uomini e
bestie; ma succede anche a volte di capire che non c’è altra scelta –
l’unica libertà che rimane, la libertà che ci piace credere che
Alexandre si sia presa. L’unica strada rimasta aperta verso la savana.
Un suicidio, l’estremo atto della sua libertà confiscata, finirebbe col
renderci ancora più vergognosi. Per capire bisognerebbe essere sempre
forti e dolenti come Anna Maria Ortese con la cagnetta Laika, quella
spedita a perdersi e a morire tra le stelle. “Ritorna! E perdonaci!” –
le scriveva. Ecco, Alexandre, che tornare non puoi (e certo tornare tra
noi non vuoi): se esiste una savana come il nostro fantasioso paradiso, e
corri adesso senza il terrore delle corde e delle sbarre, il cuore che
finalmente danza lieve senza sbandare – ecco, anche tu, perdonaci.
Se Alexandre ha scelto di morire – lasciando andare
via per sempre il battito doloroso, ritrovando infine quella sorta di
leggerezza che si scopre quando la paura è così forte che è ormai
inutile avere paura – ha fatto bene. Si è difesa con l’unica arma che
tante volte resta ai più indifesi e deboli. Del resto, cosa ha mai
perso, quaggiù? Le stupide esibizioni sotto il tendone – quella pena di
bestie umiliate e costrette a gesti innaturali, la ferocia della frusta
che schiocca, quell’apparenza di divertimento che nasconde un lungo
abuso su creature ridotte a prede da addomesticare. Deve far passerella
sotto le luci una giraffa? Inchinarsi un elefante? Stare su uno sgabello
una tigre? Un ergastolo e una catena indistruttibile, per queste bestie
degli spazi sconfinati che noi facciamo fatica anche solo a immaginare,
create per corse di chilometri e chilometri, solo vento e cielo
intorno. Si può dare senso a una vita tra le sbarre – a instupidirsi in
gesti replicati uguali per anni e anni: mai la possibilità di ritrovare
la libertà, mai un po’ di misericordia per loro? Cosa c’è di educativo
nella paura di una furibonda tigre? Nella giraffa immensa che quasi non
può allungare le gambe? Nella prigionia di un maestoso elefante? Da
quale sprofondo della nostra insensibilità arriva questa pacifica e
colpevole indifferenza, come possa resistere e come possiamo con essa
convivere, resta un mistero – “il dolore degli altri è sempre dolore a
metà”, come nella canzone di De André, e viene da pensare: il dolore di
tutte le altre creature, oltre al nostro. Eravamo solo i custodi, siamo
diventati i saccheggiatori. Wislawa Szymborska vide una volta al circo
orsi battere le zampe, scimmie in bicicletta, leoni che saltavano il
fuoco, elefanti con il vaso in testa, cagnolini ballare. E appunto
vergogna, come essere umano, la poetessa premio Nobel provò.
“Divertimento pessimo quel giorno: / gli applausi scrociavano a cascata,
/ benché la mano più lunga di una frusta / gettasse sulla sabbia
un’ombra affilata”. Come incomprensibile appare la sorprendente mestizia
estiva di Rai Tre, che sempre fa la colta e l’intelligente, infarcita
di polverosi e frastornanti e crudeli spettacoli circensi, sagra paesana
luccicante: ma la frusta s’intravede, dietro le luci che sfavillano…
Forse, l’irrompere nel nostro quotidiano di una bestia in fuga –
sono così tante: da inutili zoo, da scannatoi legali: una mucca, per
sfuggire al macello, è scappata dentro un ospedale – e una bestia in
fuga è sempre un bellissimo (immeritato) dono alla nostra scarsa
fantasia e al nostro faticoso stupore. Una bestia in fuga ha una sorta
di forza divina e di bellezza indecifrabile: sfuggire alle sbarre, alla
frusta, al coltello dello scannatore. E’ come provare a ristabile un
minimo di ordine, una logica, almeno un piccolo principio di pietà – in
un mondo dove spesso ordine e logica e pietà sembrano confondersi e
scomparire: è la sentinella che urla al buio che ci avvolge. Come il
cervo con la croce tra le corna che appare a sant’Eustachio – pagano e
cacciatore – nel dipinto di Pisanello: e intorno a lui lepri e
cerbiatti e orsi e gru e uccelli: le vittime di quell’uomo che la sua
apparizione ora blocca. C’è sempre modo, del resto, di cavare un
insegnamento. Si è visto un filmato dove un maialino salva una capretta
che sta per affogare: osservate e valutate altre immagini di questi
giorni, dove l’umano malamente si faceva porco, quasi una riprova
dell’indiscussa superiorità di buongusto e civiltà della nobile razza
suina.
Sarebbe bello che qualcosa restasse, dell’ultima corsa e della
spaventosa morte della giraffa Alexandre. Si potrebbe fare così: in
autunno, sicuro come ogni anno, ripartirà la protesta studentesca. Buone
o sbagliate che siano le ragioni, di solito i ragazzi hanno bella
fantasia nello scegliere il nome del loro (annuale) movimento. Che una
volta prese il nome di Pantera – essendo stata a lungo avvistata, forse
davvero, forse leggenda metropolitana, una pantera nei dintorni di Roma.
Non fu, per fortuna, mai catturata. O forse non è mai esistita, ma è
stata capace di accendere la fantasia. La giraffa di Imola invece è
esistita davvero, e davvero ha avuto paura e morte davanti ai nostri
occhi. Perché voleva scappare, perché cercava la savana che noi le
avevamo rubato. La bellezza della sua fuga è stata una bellezza piena,
di cuore e di sguardi, e una fenomenale lezione di vita – e quando ha
ceduto lo ha fatto eroicamente, senza più permettere a qualcuno di
legarla. Ecco, come c’era il Movimento della Pantera, adesso si potrebbe
far nascere il Movimento della Giraffa (ancora “un sogno che ti assolve
per un breve istante” – sempre W. S.). Così che possa continuare ancora
a lungo la corsa inviolabile e magnifica di Alexandre – la Giraffa che
voleva essere libera, o almeno libera di morire.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Stefano Di Michele
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Data d'iscrizione : 25.11.11
La giraffa della libertà :: Commenti
sì, bello l'articolo....
Resiste, corre, non si arrende – il suo cuore matto e frenetico in modo
quasi magico ha elaborato l’unica via di fuga rimasta. Non è vero che il
cuore e il cervello faticano a comunicare: certi sì, ma non il suo
cuore e il suo cervello – e anzi il suo cuore ha chiaramente detto al
suo cervello cosa fare: non consegnarsi mai più da prigioniera, non
rientrare mai più nella gabbia, non accettare mai più corde alle gambe e
al collo. Fare l’unica scelta che a un essere ferito o stanco o
impaurito – e libero e fiero e intelligente – è concessa: sottrarsi ai
sequestratori sottraendosi alla propria vita.
Resiste, corre, non si arrende – il suo cuore matto e frenetico in modo
quasi magico ha elaborato l’unica via di fuga rimasta. Non è vero che il
cuore e il cervello faticano a comunicare: certi sì, ma non il suo
cuore e il suo cervello – e anzi il suo cuore ha chiaramente detto al
suo cervello cosa fare: non consegnarsi mai più da prigioniera, non
rientrare mai più nella gabbia, non accettare mai più corde alle gambe e
al collo. Fare l’unica scelta che a un essere ferito o stanco o
impaurito – e libero e fiero e intelligente – è concessa: sottrarsi ai
sequestratori sottraendosi alla propria vita.
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