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La pioggia, Pablo e la fllia della città

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300312

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La pioggia, Pablo e la fllia della città Empty La pioggia, Pablo e la fllia della città




Sono in ritardo stamattina. Cose da fare in casa. Chiacchiere. Il PC acceso. Alle 6 il cielo era sgombro. Più o meno. Strati alti e verso est il sole illumina i Monti Prenestini. Ora invece è livido. C’è uno sprazzo di cielo lattiginoso verso sud ma lontano verso nord si vedono già i lampi. Non ho guardato le previsioni e la giacca antipioggia è in ufficio. Poco male. Mi bagnerò.

In cortile la portiera corre con il carrello pieno di foglie e aghi di pino a cercare riparo. Si guarda attorno circospetta. Perché, mi chiedo. Prima che scrosci manca ancora. Potrebbe finire tutto e mettersi al riparo in tempo. Se fa così, dopo dovrà tirare su quello che resta tutto bello fradicio. Fatica sprecata.

Sono sul marciapiede e guardo in alto. Le diverse tonalità di grigio delle nuvole disegnano strane forme. Le linee fra una e l’altra sono nette. Sembrano i disegni di quando ero bambino e non sapevo fare le sfumature. La nuvola finiva sempre con una bella riga di pennarello più scuro. L’importante era stare dentro i margini. Non il realismo dell’immagine.

L’edicolante è impazzito. Butta Jennifer Lopez e Jim Carey alla rinfusa nel suo piccolo magazzino. Uno sopra l’altra in un’orgia di cartone. Afferra i film porno e i giocattoli per i bambini e li butta sui divi di Hollywood. Come se anche la pioggia dovesse essere vietata i minori di 14 anni. Arriva l’acqua, grida al barista lì vicino. Arriva l’acqua? Avoglia prima che arriva, pensa quello mentre serve il caffè ai netturbini.

Passo con lo scooter accanto alla scuola dove mamme sui tacchi gettano figli giù dal marciapiede. Di corsa di corsa. Li trascinano fuori dalle strisce senza nemmeno guardare chi arriva. Una macchina inchioda. Due parolacce. Eh scusi, sta per piovere. E via, verso il portone, trascinando due grembiuli azzurri pieni di figli.

Verso Portonaccio si vede il nuvolone plumbeo che sovrasta gran parte della città. A nord è viola. Qua e là fra uno sbuffo di grigio e l’altro pennellate di verde acido. Come se al pittore di stamattina non bastassero le sfumature fra il nero e il bianco. Troppo pochi due colori.

Inizia la follia. Una smart mi taglia la strada per tentare di passare in un corridoio fra un autobus e il marciapiede. Inchioda. Non c’entra. Si vedeva da lontano ma ha fretta. Sta per piovere. Ma di cosa ti preoccupi, penso. Sei in macchina. Gli scooter davanti a me gli suonano. Loro ci entrerebbero e sta per piovere. Uno scende e gli batte sul cofano. Te voi levà. Poi l’autobus si muove e il torto è dimenticato. Salta in sella e parte a razzo. Gli altri lo seguono.

A Porta Maggiore il semaforo è rosso. Le pennellate verde acido si sfrangiano verso il basso quasi a toccare i soffitti dei palazzi. Sta per piovere. Le leggi sono sospese. Le regole non valgono più. I vigili urbani fuggono dentro una macchina e si allontanano. Arriva arriva, si dicono. E’ rosso ma chissene frega. Passano tutti. Ingorgo. Parolacce. Li guardo e sorrido. Fra un po’ arriva la pioggia.

Quando entro a Piazza Vittorio mi investe il vento fresco. So bene cosa significa. Masse d’aria che si spostano. La temperatura cala di 3 o 4 gradi di botto. Non lontano ha iniziato a piovere. Fra un po’ arriva. Nella piazza si sollevano foglie e rimasugli cartacei dell’incuria cittadina. Il riporto di un signore si solleva verticale come una barriera imbizzarrita. Una ragazza cinese attraversa di corsa. Un tacco le rimane incastrato nella rotaia del tram. Mentre passo è ancora lì che guarda in alto scalza strattonando la scarpa. Arriva, arriva. Sta per piovere. Via di corsa tutti al riparo, starà pensando.

La catena allentata di una Ducati mi accompagna già da qualche minuto. Vuole sorpassarmi ma non lo fa nemmeno se rallento. Una ragazza bionda si toglie i capelli dagli occhi nel mio specchietto retrovisore. Guarda in alto le pennellate verde acido che danzano. E’ preoccupata. Pioverà. Sta per piovere. Sgassa. Agita la catena con la frizione ma non passa. Mi faccio da parte. Non ho fretta. Se ne va rombando mentre arriviamo ai Fori Imperiali.

Un tuono. Lampi. Piove. Inizia piano. Goccioline rigano il parabrezza. Non ho la giacca antipioggia ma so che arriverò in tempo. O almeno ci conto. A ogni goccia la follia aumenta. Pedoni che corrono in mezzo alla strada. Gruppi di turisti stretti sotto alle tettoie come rifugiati appena fuori da una tempesta in mare aperto. Uno scooter in giacca e cravatta nero fiammante mi sfreccia a sinistra. Arriva alle strisce di Piazza Venezia. E’ troppo veloce. La prima pioggia sui sampietrini romani crea una patina infida. Se inchiodi vai lungo. Ma se non se mai andato lungo, non lo sai. E lui non lo sa. Inchioda. Lo scooter si mette di traverso. Va giù. Giacca e cravatta comprese. Lo guardo rialzarsi da lontano. Piove e nessuno si avvicina. Lo guardano i vigili. Lo guardano i turisti. Lo guardano i commessi. Piove. Si fotta.

Quando il traffico mi lascia passare, il tipo si dà l’ultima controllata veloce poi salta in sella e riparte a tutto gas. Piove, devo fare presto sennò mi fradicio. Ma è già fradicio. Però è diverso. Non è fradicio di acqua che cade dall’alto. E’ fradicio di quella che è già a terra.

Poco più in là una ragazza nuda attraversa la strada. Ha un vestito bianco. Ma è talmente fradicio che si vede tutto. Ignara dei suoi capezzoli al vento si protegge la messa in piega con una rivista patinata.

Le gocce si fanno più grandi e frequenti. E dietro al Senato un camion sbarra il vicolo. Un ragazzo in bici non ci passa. Scampanella con tutte le sue energie. Batte sul cassone del camion. Forza aho che piove, urla. Mica c’ho er camion io eh. Il trasportatore inserisce la retromarcia e con uno scatto indietro fa finta di volerlo mettere sotto. Bicicletta a terra, quello si lancia verso lo sportello. Ma l’altro lo aveva previsto. Inserisce la prima e lascia libero il passaggio.

Parcheggio lo scooter e salgo su. Mentre apro la finestra umidiccio, fuori si scatena il putiferio. Acqua a secchiate. Suonano tutti gli allarmi. I teloni dei ristoranti di sotto grondano sui tavoli allestiti per il pranzo. Il negozio di oggetti belli ma inutili si è quasi allagato. Il padrone scopa fuori dalla soglia tsunami di liquidi scuri. Un topo gigante corre fuori da un tombino allagato e attraversa la piazza in cerca di rifugio.

10 minuti dopo è tutto finito. Ma la follia no. Si è solo assopita nella mente instabile dei cittadini dell’alveare. La natura in basso è stata allontanata dall’asfalto. Quella intorno dal cemento. Ma da quella sopra l’uomo delle città non sa ancora proteggersi se non con strumenti effimeri. Che tengono lontane le sensazioni tattili, ma non oscurano la vista. E tramite gli occhi il cielo grigio e verde acido scatena la follia. La pioggia diventa un cataclisma imminente. La fretta e il panico prendono il sopravvento. E tutto diventa caos.

Mentre ascolto le sirene e i clacson mi torna in mente un’immagine.

Amazzonia Boliviana. Fiume Beni. Sono con Pablo a pesca. Lui è un nativo Ese Ejja. Viaggio con la sua famiglia su e giù per gli affluenti da 10 giorni. Oggi abbiamo preso poco. Solo due grossi bagre da essiccare. Ho lasciato la tenda senza telo stamattina quando siamo partiti. Era tutto fradicio di umidità notturna e volevo lasciare che il sole lo asciugasse. Errore. E’ questo che penso mentre le nuvole del primo pomeriggio iniziano a gonfiarsi. La nostra barca è legata a un ramo incastrato sul fondo. Inizia a soffiare il vento freddo che precede il temporale. Masse d’aria che si muovono. Torri di cumuli all’orizzonte che veloci risalgono il fiume. Sta arrivando. Fra poco piove. E qui non siamo a Roma. Siamo in piena foresta pluviale. Esatto pluviale. Dal latino “dove casca l’acqua”. Molta. Sta arrivando. Fra poco piove. Metto via la lenza e inizio a sciogliere i nodi del nostro ancoraggio. Pablo mi ferma. Pioverà Pablo, la tenda è senza telo. Poco male, si asciugherà mi dice il mio amico dalla pelle cotta dal sole dell’equatore. E con calma si rimette a pescare. La superficie dell’acqua inizia a incresparsi. Le piccole buche fatte dalle gocce che cadono lanciano tutt’intorno centri concentrici. Dopo un po’ buchi e cerchi si mischiano. Uno sull’altro. Rapidi. Sempre di più. Tuona. Lampi. Il temporale si scatena. Pablo tira sulle nostre teste un vecchio telo di plastica spessa, qui e lì bucato dall’usura, macchiato dalla nafta. Non piove, il cielo lancia verso il basso urla liquide. Lui pesca. Di solito non sorride molto ma oggi lo fa più volte mentre nota il mio sconcerto. Venti minuti dopo smette. Splende il sole. Tutto si asciuga in qualche istante. Un pesce abbocca. Stavolta è grosso. Per un paio di giorni siamo a posto.
Tengri
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