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Sulle punte

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300312

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No. Non quelle a cui generalmente si pensa. Le punte su cui mi piace stare sono altre. Sei punte di una particolare lega di cromo e acciaio. Che si infilano nella neve e nel ghiaccio. Nelle piccole e grandi fessure della roccia. Sei punte a cui affidi la tua incolumità e che ti separano dal vuoto. Che ti aiutano a salire fin dove quel giorno hai voglia di arrivare. Le quattro punte frontali dei ramponi e le due becche delle piccozze.

Sei punte che all’inizio della storia dell’alpinismo nemmeno esistevano. E che in seguito l’hanno più volte rivoluzionata. Come tutte le innovazioni furono all’inizio sottoposte a severe critiche da parte dei contemporanei. Non sono certo un esperto di storia degli sport verticali. Ma sembra che lo stesso Edward Wymper, a cui si fa risalire l’inizio della passione per l’ascensione delle montagne fine a sé stessa, considerasse i ramponi uno strumento disagevole e insicuro. D’altra parte l’introduzione della tecnica della piolet traction suscitò non poche perplessità negli alpinisti di allora. Ci volle non poco per convincere l’artigiano Charlet a costruire le prime piccozze corte con la becca curva.

Eppure oggi quelle sei punte sono tutto ciò che permette all’alpinismo su ghiaccio e misto di progredire.

Non sono nemmeno un esperto di alpinismo. Lo pratico quando posso. Al mio livello e con poche ambizioni da curriculum, vista l’età a cui mi ci sono avvicinato. E quest’inverno ho toccato per la prima volta quello che percepisco come il limite di ciò che ora so e posso fare. Non parlo solo degli aspetti tecnici. Della difficoltà della via. Ho troppo poca esperienza per saperlo per certo. Ma soprattutto della dimensione umana ed emotiva del salire con un compagno in ambiente. Del fatto di salire come primo di cordata e di sentirmi responsabile per chi viene dietro di me.

Ma cosa è successo? Sul secondo tiro di un itinerario attualmente al mio limite ho sbagliato direzione. Il perché, o almeno quello che penso sia il perché, lo chiarisco più avanti. Ho cercato diverse soluzioni per allestire una sosta. Poi ho individuato uno sperone fessurato alto più o meno come me e spesso circa tre volte il mio corpo. Ho scavato un piazzoletta per avere entrambi i piedi su roba solida e ho ispezionato la fessura. Solida. Ho passato intorno al pilastrino le fettucce. E mentre le chiudevo si è staccato il primo sasso. Così, di netto, dal pilastro. L’ho afferrato in mano al volo cercando di rimanere in equilibrio e l’ho appoggiato sul tetto del pilastrino. Ho iniziato a ispezionare il punto del distacco, cercando di non perdere le fettucce. E, quasi la roccia si fosse offesa per i miei sguardi interrogatori, un masso grande 4 o 5 volte quello precedente a iniziato a tremare. Ho provato ad afferrare anche quello. Ho stretto. Più che potevo. Ma in mano mi è rimasta solo polvere. Ho visto cosa stava per succedere e mi si è gelato il sangue. 30 chili di pietra in viaggio verticale verso le mie corde. Il primo pensiero è andato al compagno alla sosta precedente. “Sasso!”, ho urlato, come si deve. Ma non so se mi ha sentito. Il secondo pensiero è andato a me stesso. Ora il sasso taglia la corda e a quel punto sono solo. Sotto il culo ho 15 metri quasi verticali. Saliti con gusto. Ma scenderli senza corda … In alto non posso andare. Sotto a quei 15 altri 80 prima di tornare al punto di partenza. Poi il primo urto del masso mi riporta dove sono. Colpisce come la palla di un flipper i bordi del camino dentro cui sono appena salito. E si disintegra in una pioggia di polvere e scaglie. Marcio. Il sasso era completamente marcio. Quindi anche il resto del pilastro a cui sono assicurato potrebbe a ragione essere marcio. Mi riprendo abbastanza rapidamente. Controllo. Prima piano. Poi con un po’ più di energia. Devo capire se la struttura regge. Decido che va bene. Il secondo e un’eventuale calata statica non creeranno problemi. Un volo del primo non ci scommetterei. Ma non c’è altro. Nulla. Neve inconsistente e placche lisce. Recupero il compagno. Gli propongo un traverso ma non se la sente. Lo aiuto ad allestire il suo discensore e prima lui, poi io ci caliamo. Lentamente. Leggeri fin dove possibile.

Niente di diverso da quello che in montagna succede. Non sempre ma spesso. Saperlo è una cosa. Trovarcisi dentro un’altra. Sapere che sotto di te c’è qualcuno e che la sua incolumità dipende da come gestisci le cose tu è una bella responsabilità. Se vola giù un sasso di 30 chili in ballo c’è la vita. Non una ferita o una gamba rotta. La vita. Ma perché ho sbagliato?

Il paradosso è che ho sbagliato per tanti motivi. Ma uno in particolare è lo stesso che mi spinge a scalare. Ed è lì che nasce l’inquietudine.

Da Bonatti a Humar ho letto e ascoltato molte razionalizzazioni dietro alla motivazione che spinge l’uomo verso l’alto e dentro le pieghe di un gigante di roccia e ghiaccio. Non ne condivido quasi nessuna. Almeno nessuna di quelle dei grandi nomi. Non scalo per cercare me stesso. Sarebbe come cercare di fotografare le ali del colibrì. Vengono sempre mosse. Continuerei solo a trovare domande. E mi bastano quelle trovo nella vita normale. Non scalo per il brivido gelido che ti scivola lungo la schiena quando tutto è perduto. Mi basta guidare lo scooter nel traffico a Roma per quello. Non scalo per ambizione. Non ho 19 anni e non ho in programma spedizioni alle Torri di Trango o sulla Rupal al Nanga Parbat. Quindi sono fuori dai giochi. Non scalo perché mi piace fare sport. Esistono sport molto più completi e soddisfacenti. E già li pratico.

Scalo per il “tunnel”. Lo chiamo così. E’ qualcosa che si sperimenta solo scalando. Più sei vicino al tuo limite tecnico e ambientale e più il tunnel è silenzioso. Ci entri a 5 metri da terra e ne esci solo quando ti fermi alla sosta, ti volti verso il basso e gridi “Molla tutto!”. Nel tunnel ci sono solo le sei punte e la montagna. Il resto non solo non conta. Non esiste proprio. Il tempo è solo presente. I suoni tagliati dall’equalizzatore della presenza sono pochi. E li senti vibrare dentro. Un colpo dopo l’altro le sei punte ti portano su. E la montagna ti lascia passare. Il fruscio della neve, la voce del compagno, il vento, il freddo, li senti in ogni ora e qui. Ma nel successivo li perdi. Tu e le sei punte. Tu e le sei punte. Il resto te lo ritrovi registrato nella memoria visiva quando sei fuori dal tunnel. In differita.

Ho provato a razionalizzare e penso che scalare appartiene all’uomo come l’istinto del cacciatore apparitene alla tigre. Sta scritto nella nostra evoluzione. La nostra specie, se la si considera nell’interezza della propria storia, è stata più sugli alberi che in terra. Scalare apparteneva alle strategie di sopravvivenza. Per proteggere la prole dai predatori. Per cercare il cibo. La dimensione verticale sta scritta in solchi profondi nella corteccia celebrale. La zona più interna del cervello. Quella più antica. Quella che preside alle reazioni istintive. La mia opinione è che scalare ci rimette in contatto con quella dimensione perduta del nostro essere mammiferi. E la sensazione di unità assoluta, di armonia, di immersione totalizzante nel tunnel rappresenta una sorta di momento di completezza. E’ come se nella vita di tutti i giorni una parte di noi fosse spenta. Scalando la connessione si riaccende. E noi siamo totali. Il vuoto e la verticalità incrinano la corazza e l’uomo torna scimmia. Scimmia in pericolo e in lotta per la sopravvivenza.

Ho sbagliato per questo. Nel tunnel c’era un bivio. L’ho intravisto. Mi sono fermato e ho fatto un tratto in discesa. Ho guardato l’altra sezione. Poi ci ho ripensato. L’altro era più ripido. Più ghiacciato. Più articolato. Il tunnel ha preso il sopravvento? Vale la pena di rischiare l’incolumità del tuo compagno per una sensazione che è solo tua? Inspiegabile. Incondivisibile. E proprio per questo connaturata alla natura dell’individuo?

Forse inizio a capire ciò che spinge molti e anche me stesso ad andare da soli.
Tengri
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