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Il crepaccio

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Messaggio  Ospite Lun Lug 02, 2012 4:16 pm

di Stefano Lovison
http://alpinesketches.wordpress.com/2012/07/02/il-crepaccio/

Che cosa ci faccio qui bloccato in questa posizione assurda, ingoiato nel freddo ventre di una montagna dal nome ridicolo?
Sono stupito più che essere terrorizzato.
Uno sbuffo di aria gelida che proviene dal basso ha l’odore di un ambiente arcaico, di terra, ghiaccio e muffa.
Mi fa tornare alla realtà, alla mia disperata situazione.


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Cosa ci facessimo in quel luogo sperduto del Pakistan ce l’eravamo chiesti un po’ tutti dal momento in cui ci eravamo spinti, meglio, infognati in questa valle della regione Hunza.
Giunti al fondo del Barpu Glacier, dopo tre giorni di cammino, non avevamo altre possibilità se non quella di scalare montagne mastodontiche di neve e ghiaccio e rocce infide e pericolanti, impressionanti come gli immensi boati che sconquassavano la valle a ogni ora del giorno e della notte, suonando come un monito.
Non che il panorama non fosse incantevole.

Tutto sembrava fatto per essere scalato. Batura, Diran, Malubiting e in fondo alla nostra valle, lo Spantik con il Golden Pillar ancora inviolato.
Ma era francamente troppo un ‘qualsiasi’ settemila per il nostro piccolo gruppo di appassionati alpinisti, forti nelle intenzioni ma così poco e male equipaggiati, per di più con i giorni contati. Altre strategie oltre lo stile alpino non erano contemplate anche se erano tempi in cui non si andava tanto per il sottile in fatto di etica. Passava come una riflessiva e cosciente virtù sportiva ma era semplicemente la necessità di alpinisti che vanno anche piuttosto di fretta. Cazzo vai a fare in Pakistan se non visiti anche tutta l’India del nord? Mica siamo nati per soffrire?

Con un occhio alla cima, quindi ma l’altro decisamente sulle graziose rest house di Nagar dove si sorseggia il chai al latte all’ombra degli albicocchi. Da lì si è con un paio di ore di jeep alle amrat cola di Gilgit, dove magari si riesce a rimediare anche qualche birra al mercato nero. Altro che il chapati intriso di sabbia di Assan, il nostro cuoco, custode e accompagnatore.
Senza permessi di scalata, in fondo ad un ghiacciaio che nell’Oberland Bernese avrebbe fatto la sua porca figura, ci rimaneva questo insignificante cinquemila dal nome impronunciabile, scalato solo una volta per una via che più ‘normale’ non si può. Una cresta di sfasciumi che si trasformava poi in una cresta di neve. Una salita di una logica disarmante tanto da non lasciare intravedere nessun’altra alternativa. Oddio, a guardarle con attenzione le montagne sono fatte di alternative. C’era la direttissima, a fianco di un enorme seracco a ferro di cavallo il cui collasso aveva scalpato di netto una fetta enorme di ghiaccio mettendo a nudo gli strati di chissà quali tipi di rocce lucide e nerastre.
E più a sinistra una via che a me sembrava meno sinistra e quasi piacevole, tanto da ricordarmi la nord della Marmolada.

Io e Checco, nella stessa tendina si giocava a fare i duri come Boardman e Tasker sulla montagna di luce, anche nelle letture. Come motociclista mi dedicai allo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta mentre a Checco, ottimo canoista, sarebbe toccato inspiegabilmente Gorky, lettura che fu prontamente rimpiazzata da un manuale sul kayak in acque selvagge. Nulla gli chiesi e mai più tornammo sull’argomento se non nell'occasione dello scambio dei libri lasciati a metà, constatando per altro una intercambiabilità incredibilmente logica.
Poi ci annullammo in ore di infinite gare di automobilismo in circuiti disegnati su fogli a quadretti. Un incidente le cui responsabilità non furono mai completamente accertate ci fece chiudere lì con i grand prix.

Mi lavai i capelli e preparammo i sacchi per la salita.
Checco, Anna e Massimo scelsero la via direttissima mentre a me, Sergio e Lucio toccò la meno sinistra via di sinistra.

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Al primo (e unico!) campo, installato stranamente per un C1 che si rispetti non ancora in vista della neve, ci svegliammo in un’alba livida fatta di nevischio. Sapevamo che le nuvole si sarebbero diradate per assicurarci una lunga mattinata fatta di sole prima del peggioramento pomeridiano o così come ci era sembrato osservare nei giorni precedenti.
Gli accordi prevedevano l’incontro in vetta delle due cordate e il ritorno tutti insieme per la normale. Grosso modo la stessa strategia degli americani sull’Everest nel ‘62 ma non lo dissi a nessuno.
I saluti furono a moffole alzate come nei disegni di Samivel.

Campi di neve, prima in leggera salita e via-via sempre più ripidi, ci portarono ad una crepaccia slabbrata di neve marcia.
Superammo il muvèpà con movimenti ineleganti di scalciate a vuoto, piccozzate e il ginocchio risolutivo.
Ora il gioco era fatto. Le filate di corda sui 50° si sarebbero succedute fino al punto non ancora visibile dell’ampia depressione in vista la cima.
“Ma sì non è proprio così male” pensavamo a voce alta, godendoci il momento che questo luogo così isolato e selvaggio ci riservava. Si andava legati in conserva su neve marcia con il sole proprio in faccia, diritto sulla nostra via, pur sempre una prima assoluta!
Non che calpestare quello che nessun altro uomo aveva mai visto fin dall’alba dei tempi producesse in me chissà quali sentimenti di orgoglio. A me interessava solo non sprofondare ad ogni passo in quella neve inconsistente appena protetta da un delicato strato di rigelo.
L’inclinazione della parete si annullò gradatamente e raggiunta la depressione decidemmo di slegarci. Non era stato deciso da nessuno che dovessi fare da portatore ma ero il più giovane e il meno esperto dei tre, non ci pensai un secondo, presi la corda e anche un mazzo di cordini e fettucce e infilai tutto nello zaino.

La cima era veramente vicina ma dei nostri compagni non vi era traccia. Se erano stati più veloci erano sicuramente seduti a riposare da qualche parte nel grande plateau sommitale. La giornata era splendida, calda e non spirava una bava di vento.

Lucio si spostò sulla sinistra di una depressione con della neve leggermente più chiara, io tirai dritto con Sergio che mi seguiva a breve distanza.
Proprio lì in mezzo sprofondai fino al ginocchio. Quasi neanche sorpreso presi a tirare la gamba come altre cento volte mi era capitato di fare ma sprofondai ulteriormente fino al bacino. Mi venne quasi da ridere quando mi resi conto di non aver più nulla di solido sotto i ramponi e d’un tratto sprofondai di sotto, inghiottito.
La corsa fu breve e si arrestò quasi subito, senza alcun dolore. Neanche il tempo per una bestemmia o per aver paura.
Passai da una luce abbacinante al buio totale in una frazione di secondo. Gli occhiali da ghiacciaio, scomposti sopra i miei occhi e pieni di neve, non mi permettevano di vedere nulla. Non riuscivo a muovermi ma ero saldamente legato alla neve senza alcun punto di appoggio preciso, con le gambe in spaccata e le mani, con gli attrezzi incastrati nella neve, come crocifisso.


Che cosa ci faccio qui bloccato in questa posizione assurda, ingoiato nel freddo ventre di una montagna dal nome ridicolo?
Sono stupito più che essere terrorizzato.
Uno sbuffo di aria gelida che proviene dal basso ha l’odore di un ambiente arcaico, di terra, ghiaccio e muffa.
Mi fa tornare alla realtà, alla mia disperata situazione.

Ora capisco di essere proprio nell’esile punto di congiunzione tra una intera parete di ghiaccio che si sta staccando dal resto della montagna. Sotto i miei piedi non c’è nulla, solo il buio e una corrente di aria gelida e mortale di un immenso crepaccio a campana.
Bisbiglio qualcosa e invece che parole dalla bocca asciutta mi esce un lamento dall’odore cattivo.

Sapere che nel mio zaino c’è la corda, l’unico argomento di contrattazione per la mia salvezza mi getta nel panico ma non faccio nulla. Non c’è una soluzione e non ci sono negoziatori. Mi rendo semplicemente conto che il caso è chiuso e che per me è finita.
Mi sento scivolare nel vuoto in una scena, che pur rifiutando con tutto il mio essere, prefiguro ormai come l'unica cosa che si avvererà ineluttabilmente nel giro di pochi minuti.
Cerco la salvezza roteando forsennatamente gli occhi e invece mi ritrovo concentrato ad osservare le marche di oggetti inutili… Julbo, Simond, Francital.

Penso ai miei compagni lì fuori, a pochi metri da me, nel sole, vivi ma impotenti, col rischio che tutto il ponte di neve possa crollare d’un tratto. Ne intuisco la fragilità nel bagliore che in trasparenza emana verso il buio che mi circonda.

Urlo “Sergiooooo” ma ho paura di sentirne l’eco e ne esce un grido smorzato, gutturale e tremolante come durante i sogni di paura.
La mia salvezza è a un metro e io me ne sto andando nel peggiore dei modi.

Quante volte ho vissuto nell’immedesimazione questi momenti. Si rivivono cento, mille volte gli incidenti che ci potrebbero accadere per allenare la sopravvivenza e per esorcizzare la paura. Ma che mai dovranno accaderti. E ora sta succedendo a me, proprio a me! Mi sento solo ma soprattutto beffato e deluso.
I richiami di Sergio producono l’effetto di gettarmi ancor più nello sconforto e nell’impotenza del mio stato. Non ho più il coraggio di guardarmi intorno, ancor meno verso il basso, tanto è il freddo che mi raggela il sudore a farmelo ricordare cosa ci sia sotto i miei piedi o, peggio, cosa ci potrebbe essere. Come quando si nuota di notte in acque melmose o popolate da alghe mi sento ritrarre le gambe per non farmi accarezzare i piedi da qualcosa di sconosciuto e pauroso.

Se c’è corrente d’aria da qualche parte entrerà dal basso ma è più una constatazione che un residuo di speranza. Cerco di immaginare le architetture invisibili che sorreggono il mio peso. Ho letto di chi si è salvato rimbalzando tra le pareti cadendo morbidamente in un esile terrazzino. No, per dio. Quando succederà spero almeno in una caduta definitiva e che così sia.
Mi scuoto. Alzo la testa verso l’alto, verso il cono di luce e sole che è la mia unica speranza.

“Sergio… vienimi a prendere”.
Penso con lucidità che è il più leggero dei due.
“Sta bòn, che desso vegno”, sento rispondere.
Ma come “vegno”? E poi?
Mentre lo sento respirare capisco che la tattica di recupero sarà l’unica possibile e la più semplice di tutte: mano nella mano! Come in Blade Runner, come in Intrigo internazionale, come nei film di Spencer Tracy. Ma qui siamo sul Girgindl Peak, in Pakistan, a 5200 metri non in un film e questa è una storia dannatamente vera che sta capitando proprio a me.
Da quando mi si è ripresentata una possibilità seppur remota di un recupero la rassegnazione ha lasciato il posto alla paura. Mi prende un fremito incontrollabile. Sento di non poter controllare nulla, mi sto urinando addosso.

Una mano spunta dal buco. Rotea e tasta come per cercare qualcosa di nascosto nel buio. Io cerco di capire se ci arriverò misurando la distanza come quando si accarezza lo spit mimando la rinviata. In realtà posso muovere solo la mano nel lasco della fettuccia della piccozza ma giudico la distanza in poco più di un metro, non possiamo sbagliare la presa.

Nonostante i miei ammonimenti ho sempre voluto pensare che non vi fosse consapevolezza di quale pericolo stessero correndo i miei compagni, Sergio completamente steso su pochi centimetri di neve inconsistente e Lucio a tenergli le gambe.

Agguanto per bene la mano, la picca di destra esce dalla sua sede e gli occhiali cadono nel vuoto. Ho un momento d’incertezza perché so che ai movimenti successivi non sarà concessa una replica. Respiro a fondo e anche gli altri tre punti di ancoraggio perdono il contatto: sono sospeso nel vuoto e mi sembra di avere un peso incredibile che mi attira verso il centro della terra. Il mio mondo è ora tutto in quei due pugni serrati. Mi vedo dall’esterno come nelle immagini di un film espressionista tedesco.

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In istanti che durano un’eternità mi sento sollevare lentamente e non so con quale e quanta energia prima che io possa contribuire ad alleviare lo sforzo di quella poderosa, mai tanto salvifica e amica stretta di mano.

Ma lo zaino mi blocca, non riesco a passare. Non poteva essere così semplice, lo sentivo. Mi aggrappo al braccio di Sergio anche con la sinistra e nel momento in cui ci fermiamo a riordinare un nuovo tentativo altre due mani, quelle di Lucio, mi abbrancano da dietro, mi scuotono, spostano, sollevano attraverso il buco.

Vengo catapultato nella luce, terrorizzato, offeso da me e grato ai miei compagni.
Sono fuori, sono vivo. Tossisco della neve che mi è andata di traverso, mi viene da piangere, cerco di contenermi ma ho solo voglia di parlare, di dire e raccontare qualcosa nell’eccitazione dell’adrenalina.

La sera stessa siamo tutti al campo base immerso tra i rododendri. E i chapati pieni di sabbia fatti da Assan, l’odore di fumo, le capre, il silenzio.

Fuori dalla tenda l’enorme seracco del Girgindl Peak sembra una smorfia di disgusto nell’ultimo sole di un giorno di agosto.
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Messaggio  buzz Mar Lug 03, 2012 8:28 am

Ho commentato sul tuo blog, ma anche qui ti dico che è proprio un bel racconto.
Si percepisce che è il racconto di un evento realmente accaduto. Troppo lucido nei particolari per essere solo immaginato.
Fortunato a poterlo ripescare dal tuo archivio.
Pensa, quante cose non ci sarebbero state senza quella mano. Neanche il racconto.
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Messaggio  Ospite Mer Lug 04, 2012 1:18 pm

Molto bello A, in una parola mi verrebbe da definirlo "potente" come racconto. Capace di travolgere e trasportare attraverso la narrazione. Avevo immaginato anch'io che potesse essere un tuo racconto autobiografico, e da quello che scrive Buzz mi pare di capire di sì.

Per curiosità, di che anni parliamo (a cavallo tra '70 e '80?). Eravate all'interno di una spedizione o siete scesi in autonomia? Belle anche le foto, catapultano in un'altra epoca!

ciao! Wink
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Messaggio  Admin Mer Lug 04, 2012 1:28 pm

alessandro ha scritto:Molto bello A, in una parola mi verrebbe da definirlo "potente"

nel commento sul suo blog ho scritto, l'altro giorno: "Prosa potente." Very Happy
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Messaggio  fab Mer Lug 04, 2012 2:17 pm

Ad_buzz ha scritto:
alessandro ha scritto:Molto bello A, in una parola mi verrebbe da definirlo "potente"

nel commento sul suo blog ho scritto, l'altro giorno: "Prosa potente." Very Happy
più che prosa "presa potente"! asd
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Messaggio  Ospite Mer Lug 04, 2012 3:00 pm

grazie... a tutti Rolling Eyes

Era il 1983. Qualche indicazione si evince dalle marche citate che è roba di quegli anni.
La spedizione (a quei tempi erano tutte spedizioni) era una cosuccia fatta in casa. Lì eravamo in sei. Le intenzioni erano per una montagna più alta e anche relativamente più comoda da Gilgit ma ci furono problemi di permessi e non ricordo più cosa. Fu comunque una bella esperienza pirat
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Messaggio  LucaVi Mer Lug 04, 2012 7:00 pm

Grazie a te A.
Letto, piaciuto e tifato.
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Messaggio  Roberto Mer Lug 04, 2012 7:22 pm

Bello e coinvolgente.
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Messaggio  Ansia Kammerlander Mer Lug 04, 2012 8:32 pm

LucaVi ha scritto:Grazie a te A.
Letto, piaciuto e tifato.

Sì è che sapevamo già come andava a finire! (per fortuna).
Ansia Kammerlander
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