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Il mio cortile parla 4 lingue

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Il sole è basso. Finalmente non fa più caldo. E’ un giorno qualunque di una strana estate romana. Quasi tutti i pomeriggi piove. E la signora napoletana con il cagnolino che abbaia solo a quelli piccoli come lui dice che ormai è così, non c’è più il sole di una volta. E la centrale giapponese ha peggiorato le cose. Da quando c’è stato il terremoto laggiù, qui piove come ai tropici. Curioso come nascano le mitologie urbane. Un miscuglio radioattivo di Minzolini, Tony Scott e Discovery Channel.

L’aria è fresca. E come tutte le sere sa già di curry. Devo dire che dopo un po’ il naso si ribella. L’odore rimbalza fino alle papille gustative e mi fa battere le palpebre. Come farà la famiglia di Brtondwinakloiani a vivere sempre con quell’odore nelle narici non lo so. Il nome è inventato. Ma potrebbe pure non esserlo. Per me è comunque impronunciabile. Una serie inaddomesticabile di consonanti consecutive. E talmente lungo che la pecetta sul citofono finisce sempre appiccicata alla parete. Anche io uso il curry in cucina. Ma non tutti i santi giorni e per tutti i pasti. Delle due l’una. O mangiano sempre la stessa cosa. O fanno come gli italiani col pomodoro. Ogni occasione è buona per riempirci il piatto. La gente dice che i bengalesi stanno comprando il quartiere. E lo dicono come fosse una sorta di usurpazione del territorio di qualcun altro. Come se rubassero case, gettando in strada chi le possiede per diritto.

Nel mio cortile ci sono almeno tre generazioni di bengalesi. La più anziana la vedi girare col sari giallo e le ciabatte di cuoio da aprile a novembre. Negli altri mesi sparisce. I lunghi capelli grigi e bianchi raccolti sotto il velo. Il viso segnato dagli anni e dalle intemperie. Il cellulare sempre all’orecchio inondato dai suoni gutturali di una lingua bellissima ma totalmente incomprensibile. Qui e lì qualche sillaba inglese che ricorda alcune delle ragioni dell’estrema povertà del Bangladesh. Colonia britannica prima, parte dell’India divisa poi. E, come non fosse sufficiente, situato alla foce del Gange e del Brahmaputra. Inondazioni e carestie: sono queste le realtà di quella terra sepolta per quasi il 90% del proprio territorio sotto il livello del mare.

I figli della signora col sari giallo son fuggiti da quella miseria. E’ evidente. Non si vedono quasi mai in giro. Si spaccano la schiena facendo i lavori massacranti che nessuno di noi vuole fare più. Qualcuno spaccerà pure ma io non li ho mai visti. Li vedo invece sepolti dalle cassette di legno da dismettere in piccoli negozi di frutta e verdura aperti anche la domenica. A Natale. A capodanno. Durante il Ramadan. Sempre. Sono gente gentile, silenziosa e dimessa. Difficilmente si mischiano con qualcuno esterno al gruppo etnico. Fra loro sono solidali. Parlano, si riuniscono. Condividono anche gli spazi abitativi in numeri da insetti. Il loro odore lo senti a distanza.

La terza generazione è meravigliosa. Bambini con i nostri tratti, ma come perennemente abbronzati. Si rincorrono nel cortile con i bambini bianchi. Stessi giochi. Stesso dialetto. L’inflessione dei genitori completamente sparita. Parlano italiano con l’accento romano. Poi la mamma li chiama dal balcone e gridano una risposta in bengalese. Si scusano con gli amichetti e si avviano verso casa. Vicino al portone quello più alto apre la porta e lascia passare il figlio dei Rodriguez. Gli da una pacca sulla spalla e gli dice “se beccamo domani pe annà a scola”. I sottotitoli dicono “ci vediamo domani per andare a scuola”. L’altro accenna un sì con la testa, lancia un pallone di plastica consumata, lo ferma sul collo del piede, lo appoggia delicatamente in terra e si avvia verso il cancello.

Giocano fino alle 11 la sera. E qualche volta durante la settimana una secchiata gliela tirerei. Poi appoggio i gomiti sul davanzale e li ascolto parlare lo spagnolo che conosco. Quello degli altopiani latinoamericani. Quello imparato negli anni del mio vagare fra le Ande e l’Amazzonia. Alle volte riesco a capire l’accento. So che Carlos è peruviano. Quello grassoccio con la maglietta dell’Inter si chiama Juán e l’accento non lo riconosco. Sarà sicuramente colombiano. Uno dei pochi Paesi dove non sono mai stato. Non si stancano mai. Come noi da ragazzini. Stasera il portiere è un biondino con le lentiggini. E’ il figlio del meccanico della palazzina N. Basso. Struttura fragile. Lo stanno massacrando. Una pallonata dopo l’altra. Si sono messi d’accordo, è chiaro. Se il padre si affaccia alla finestra interviene di sicuro. Per il biondino invece è meglio così. Sta imparando a tenere botta. Una lezione importante che la scuola non t’insegna. Che ormai non ti insegnano nemmeno mamma e papà. Si impara in strada. Certo è che i ragazzini latinoamericani sono più smaliziati. Ma soprattutto sono di più. E fra loro parlano una lingua che lui non capisce. Alla fine è evidente, il biondino sembra fragile ma in realtà è il più forte dei tre. Resiste e non molla. Non fa un passo indietro. Incassa e li invita a colpire di nuovo.

“Tengo que ir. Ya llegó mi padre”. Carlos li saluta mentre un uomo con i jeans sporchi di calce e una livella sotto il braccio cerca le chiavi di casa vicino al portone della palazzina L. Lo ha visto con la coda dell’occhio e sa che la cena è pronta. Il biondino non ha capito le parole ma il senso gli è chiaro. Ora Juán e da solo e le sorti della battaglia del pallone verranno facilmente ribaltate. Intanto dalle finestre aperte dei Rodriguez si sente il lamentarsi perenne di certa musica commerciale sudamericana. Simpatici i primi 15 minuti. Dopo mezz’ora inizia la tortura. Le stesse 10 canzoni ogni volta che accendono lo stereo. Con tanta musica latina fra il piacevole e il meraviglioso, questo è un altro dei misteri del mio cortile. Ma forse li capisco. Sarà un modo come un altro per sentirsi a casa. Vicini alla normalità di un juke box di Lima. Eppure non penso che a ruoli scambiati ascolterei a tutto volume una compilation Pausini-Ramazzotti-Paoli. Nel tempo mi sono accorto che la cosa non rompe le palle solo a me. Da dietro l’angolo vedo spuntare il nigeriano della palazzina B che cammina a falcate larghe verso le finestre al piano terra dei Rodriguez. Francamente non vorrei essere nei loro panni.

Il signor Oyeyemi lo vedi uscire la mattina presto con la giacca e la cravatta. Anche ad agosto. E devi essere nigeriano per non versare nemmeno una goccia di sudore con tutta quella roba addosso! Una busta di cartone in mano accartocciata dove la impugna. Uno zaino nero sulla spalla. Le scarpe da ginnastica. E’ chiaro che ha vissuto in Inghilterra. Solo i barbari d’oltre manica indossano con orgoglio le Adidas sotto il vestito gessato. Cammina per il cortile con il mignolo avvolto dalle piccole dita di sua figlia. Lei avrà 5 anni o giù di lì. La porta alla scuola vicino al parco. “C’mon little noodle. Dad’s late. We gotta go”. Le parla in inglese. La bambina gli risponde con il saluto militare e inizia a correre avanti a lui. Sorride e lo tira per il dito. “Ora sei tu a essere in ritardo”, sembra dirgli. Oyeyemi si piega sulle gambe e fa finta di far fatica per non cadere in avanti. Resiste. E la bambina tira con tutte le forze. Ma il nigeriano è enorme. Una scultura inamovibile. Piantata sulle mattonelle disconnesse del cortile. Poi decide di cedere. Finge di inciampare, la afferra e la solleva come fosse una bambola di pezza. La siede sull’avambraccio e le spalanca il suo sorriso d’avorio. I denti degli africani sono bianchissimi. Quelli dei nigeriani lo sembrano ancora di più tanto è scura la loro pelle. Non so cosa faccia Oyeyemi nella vita. Dal saluto simulato della figlia potrebbe essere un militare di qualche genere ma l’uniforme non gliel’ho mai vista. Una volta al mercato ho incontrato anche la moglie. Una donna dalle curve africane. Con il sedere gigante e le spalle minute. Parla italiano con il naso perennemente otturato. O almeno quella è l’impressione. Alla bambina parla una lingua incomprensibile ma lei la corregge quando la madre storpia la lingua della scuola. “Aperto” mamma. Non “Abertu”.

Il mio cortile è come un castello medievale senza regnanti. Un microcosmo in cui si sono fermate genti di mondi diversi. Ognuno con le proprie usanze. Una dimensione protetta, dove i figli imparano a conoscersi. Dove si picchiano e dove giocano parlando la stessa lingua ma sapendone almeno un’altra. Dove chi sei e da dove vieni ha poca importanza. Dove i colori di pelli e vestiti interrompono il grigiore della periferia. Dove la signora del terzo piano ha imparato che il trucco per cuocere il riso basmati con il curry sono due spicchi di pera matura.

Se mai avessi un figlio vorrei crescesse nel mio cortile. Se potessi ridisegnare il mondo, lo farei come il mio cortile.

Ora però è meglio che scendo di corsa. Oyeyemi l’ho visto agitato fin dall’imbrunire. Lo osservavo camminare e gesticolare con la moglie mentre i Rodriguez aprivano le danze. Quello è veramente grosso e se non faccio qualcosa ho timore che Rodriguez domattina si sveglierà dolorante.
Tengri
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d_ice

Messaggio Ven Mar 30, 2012 3:07 pm  d_ice

Bello Tengri (dammi però tempo di leggere anche gli altri).
Bello, anche perchè mi ricorda il cortile del condominio dove ho vissuto dai 18 ai 23 anni, in periferia di Torino, case popolari. Un miscuglio di etnie, e quindi di colori, odori, lingue.... e ricordo i bambini che giocavano proprio come racconti tu. Non tutto era perfetto, ovvio, e non tutti andavano d'accordo. Soprattutto tra i più grandicelli si intravedevano alcuni comportamenti al limite del razzismo. Ma molte perdone erano perfettamente integrate con le altre culture che le circondavano. Io, insomma, ci stavo veramente bene.....
Grazie!

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Messaggio Ven Mar 30, 2012 4:05 pm  .

Bello;

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