Un saluto
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Un saluto
A pensarci bene, nella mia memoria, la Laga si identifica con i
suoi torrenti ancor prima che con le sue cime. Da bambino, durante le
prime estati trascorse a Cornillo Nuovo, fremevo dalla voglia di
raggiungere la vetta di Cima Lepri. Ma i miei, il giorno della grande
escursione, puntualmente mi lasciavano a casa. «Troppo faticoso»,
dicevano; e al ritorno: «Fortuna che non ti abbiamo portato!, che ripido!,
che sassi!, che sole!, che sete!...». Che palle! Eppure, mentre continuavo
a sognare le grandi cime, senza rendermene conto vivevo la più bella
avventura che un ragazzino potesse desiderare: l'esplorazione.
Si partiva presto, mio padre ed io, soli; nello zainetto di tela - lo
conservo ancora, tutto sdrucito - la “polpetta” antivipera, due panini e i
gessetti colorati raccomandati da mamma: «Ogni tanto fate un segno, così
non vi perdete».
La conca di Amatrice è la terra di origine della famiglia di mia madre, ma
mio padre era nuovo del posto: i sentieri li scoprivamo cartina alla mano
e, in caso d'incertezza, si tirava fuori la bussola. Così la nostra più
grande avventura la vivemmo quando, per sbaglio, imboccammo un grosso
tratturo non segnalato sulla carta e perdemmo l'orientamento. E il bosco
era il più bello che avessi mai visto, cosparso di enormi massi sui quali
ogni tanto facevo qualche segno con i gessetti. Alcuni presentavano delle
bizzarre cavità, a volte tanto grandi da poterci entrare dentro. Allora,
accanto ai buchi, scrivevo “Rifugio”.
Arrivati ad un chiassoso torrente, l'errore di percorso fu chiaro. Saremmo
dovuti tornare indietro, ma l'acqua, svelta e allegra, era troppo
invitante e decidemmo di seguirla. Si saltava da un sasso all'altro, e a
un certo punto fummo anche costretti a traversare arrampicando sul bordo
di una larga vasca. Poi, lungo un canalino ripido e sassoso, risalimmo una
propaggine che il torrente aggirava con una serie di grandi e spumeggianti
cascate. Sull'altro lato, il bosco era ormai finito e il greto, ora
pianeggiante, era luminoso e pieno di grandi fiori bianchi e gialli. Poco
oltre, dove nuove cascate sbarravano il percorso, riconoscemmo il nostro
sentiero. A malincuore, lasciato il Fosso di Selva Grande, ci incamminammo
lungo l'antica mulattiera.
Allo stazzo della Pacina però mi attendevano ancora emozionanti scoperte;
accanto alla sorgente dove bevvi l'acqua più leggera del mondo, era
disteso un gran cumulo di pietre dal quale, direttamente verso il cielo,
si innalzava un orrido e fantastico canalone che, ancora bianco di neve,
saliva fino in vetta a quota 2283. La cima fu prontamente battezzata
"Monte Spaccato".
Ancora alcuni faggi nodosi e secolari, più volte spezzati dai fulmini e...
i ricordi svaniscono in una nebbia simile a quella che dopo il temporale
sale lungo i canaloni e avvolge dolcemente le cime più alte.
Innumerevoli volte sono tornato a Selva Grande. Per i funghi, i mirtilli,
le faggete dimenticate e la neve nei canali; per salire al Gorzano in una
notte di plenilunio o semplicemente per vedere se è veramente forte,
quando soffia davvero, il vento a Colle del Vento... e poi, ovviamente,
per l'acqua. Per quella irruente delle cascate in piena allo sciogliersi
delle nevi o quella che, limpida e tranquilla ma pur sempre freddissima,
riposa nelle vasche di pietra viva; per quella che d'inverno gela e
solidifica in forme cristalline, gioia degli occhi e dei ramponi, e anche
per quella che ormai non c'è più, giù nella gola silenziosa, perché se l'è
presa l'Enel, e a noi non rimane altro da fare che immaginarla libera e
impetuosa, tonante come doveva essere un tempo.
E’ durata anni l'esplorazione dell'alveo, un pezzetto alla volta, senza
fretta. Infine, quando ogni tratto fu noto, venne il momento di riordinare
le idee, di ricomporre ogni frammento in un mosaico unico.
Si scendeva senza fatica lungo il nastro trasparente che divide gli umidi
boschi della Pacina dai pendii aspri e spogli della Solagna. In un
caleidoscopio di verdi dalle mille tonalità, da quello smagliante dei
prati al sole a quello cupo dei tassi affacciato dalle rupi, seguivamo
l'acqua correre schietta in un ruscello, ruzzolare saltando da un gradino
all'altro di una ciclopica scala scolpita nel tufo, scivolare svelta e
schizzare all'improvviso nel vuoto tuffandosi nel profondo di un'ampia
pozza. Poi, quando le possibili variazioni sul tema sembravano ormai
esaurite, il colpo di scena: il greto del torrente, quasi rinnegando se
stesso, barattava la sua ruvida anima di grigia arenaria con una più
calcarea e alla moda, trasformandosi in una forra scura e fascinosa. La
attraversammo in un tempo indefinito, come risucchiati dal vortice di un
buco nero: dall'altra parte ci attendeva un mondo diverso. Le montagne si
erano allontanate e attorno a noi non si ergevano più i fusti diritti dei
faggi. Al loro posto una macchia bassa e ispida fronteggiava il giallo
della paglia e il bruno della terra arsa. Scomparso il leggero odore della
sabbia umida, nell'aria calda esalavano essenze aromatiche. Sotto un sole
impietoso, nel sudore e nella fatica di un interminabile tratto di arido
greto sassoso, si stemperavano le emozioni appena vissute.
Con Vincenzo, però, quella dalle sorgenti a Capricchia non fu solo una
magnifica escursione, ma anche uno strano viaggio nel tempo. Mentre
attraversavamo la montagna seguendo il fluire dell'acqua, tornavano alla
mente ricordi remoti e vicini e, in una continua dissolvenza, immagini ed
emozioni ora chiare e distinte ora appena intuite. Alla fine, più forte
che mai, la sensazione di aver esplorato non uno ma cento fossi di Selva
Grande.
Non è facile farsi un'idea unitaria di un torrente così vario, specie dopo
averlo osservato con occhi sempre diversi, provando - ogni volta con animo
differente - emozioni che non abitano più quell'alveo, ma solo la memoria.
Ritrovare il torrente che tanto mi entusiasmò in un'età in cui era più
facile meravigliarsi non è possibile; l'ho cercato ingenuamente, ma al suo
posto ce n'era un altro, nemmeno tanto somigliante. Anche l'ingresso della
gola la prima volta era diverso, ho controllato le diapositive. Certo, la
luce non è mai la stessa, e chi fotografa sa cosa vuol dire, ma... Non si
era sicuri di cosa ci fosse laggiù in fondo: dal sentiero non si capiva
bene, si intuiva solo, e quando finalmente fummo sull'orlo del primo salto
del canyon, dinnanzi a quel vuoto così attraente, quale luce avrebbe
potuto rendere il luogo più entusiasmante?
D'altra parte è anche vero che nel tempo il fosso cambia e che qualche
sorpresa la riserva sempre. La pozza dove tante volte ti sei tuffato un
giorno scompare cancellata da una piena; l'acqua ferma e limpida in cui si
specchiano argentee le placche levigate della forra, un'estate la trovi
inspiegabilmente torbida e limacciosa. E può anche sorgere il dubbio che
non si tratti del solito torrente quando il cielo di luglio scompare
occultato dalla volta di un'inattesa galleria di ghiaccio rilucente.
Così, in fin dei conti, non stupisce più di tanto l'assenza dell'acqua
proprio lì dove dovrebbe essere più abbondante, anche se questa volta non
è colpa di una natura un po' bizzarra, ma solo dell'invadenza dell'homo
energeticus. Un'invadenza e un'arroganza così naturali per la
mentalità occidentale, che a Capricchia c'è ancora qualcuno che
innocentemente si interroga sul perché e sul come mai un giorno non si sia
più vista quella maestosa coppia di aquile reali che aveva il nido accanto
alla cascata del Fosso della Corva. Eppure per anni i grandi rapaci erano
stati così puntuali all'incontro con le gesta ormai mitiche di un glorioso
montanaro che, arrampicandosi a piedi nudi su quella pietra terrificante,
regolarmente ogni anno ne razziava la prole...
Manilio Prignano
:::::::::::
Manilio Prignano è morto domenica, mentre arrampicava agli speroni della Mentorella.
Personaggio conosciuto nelle falesie laziali, era anche un artista
http://www.manilio.eu/italiano/immagini-frame.htm
ricordi personali non ne ho, lo conoscevo solo di vista. Un cenno, un sorriso e via.
Lo saluto con le parole che Cristiano (Frentano) gli ha dedicato:
suoi torrenti ancor prima che con le sue cime. Da bambino, durante le
prime estati trascorse a Cornillo Nuovo, fremevo dalla voglia di
raggiungere la vetta di Cima Lepri. Ma i miei, il giorno della grande
escursione, puntualmente mi lasciavano a casa. «Troppo faticoso»,
dicevano; e al ritorno: «Fortuna che non ti abbiamo portato!, che ripido!,
che sassi!, che sole!, che sete!...». Che palle! Eppure, mentre continuavo
a sognare le grandi cime, senza rendermene conto vivevo la più bella
avventura che un ragazzino potesse desiderare: l'esplorazione.
Si partiva presto, mio padre ed io, soli; nello zainetto di tela - lo
conservo ancora, tutto sdrucito - la “polpetta” antivipera, due panini e i
gessetti colorati raccomandati da mamma: «Ogni tanto fate un segno, così
non vi perdete».
La conca di Amatrice è la terra di origine della famiglia di mia madre, ma
mio padre era nuovo del posto: i sentieri li scoprivamo cartina alla mano
e, in caso d'incertezza, si tirava fuori la bussola. Così la nostra più
grande avventura la vivemmo quando, per sbaglio, imboccammo un grosso
tratturo non segnalato sulla carta e perdemmo l'orientamento. E il bosco
era il più bello che avessi mai visto, cosparso di enormi massi sui quali
ogni tanto facevo qualche segno con i gessetti. Alcuni presentavano delle
bizzarre cavità, a volte tanto grandi da poterci entrare dentro. Allora,
accanto ai buchi, scrivevo “Rifugio”.
Arrivati ad un chiassoso torrente, l'errore di percorso fu chiaro. Saremmo
dovuti tornare indietro, ma l'acqua, svelta e allegra, era troppo
invitante e decidemmo di seguirla. Si saltava da un sasso all'altro, e a
un certo punto fummo anche costretti a traversare arrampicando sul bordo
di una larga vasca. Poi, lungo un canalino ripido e sassoso, risalimmo una
propaggine che il torrente aggirava con una serie di grandi e spumeggianti
cascate. Sull'altro lato, il bosco era ormai finito e il greto, ora
pianeggiante, era luminoso e pieno di grandi fiori bianchi e gialli. Poco
oltre, dove nuove cascate sbarravano il percorso, riconoscemmo il nostro
sentiero. A malincuore, lasciato il Fosso di Selva Grande, ci incamminammo
lungo l'antica mulattiera.
Allo stazzo della Pacina però mi attendevano ancora emozionanti scoperte;
accanto alla sorgente dove bevvi l'acqua più leggera del mondo, era
disteso un gran cumulo di pietre dal quale, direttamente verso il cielo,
si innalzava un orrido e fantastico canalone che, ancora bianco di neve,
saliva fino in vetta a quota 2283. La cima fu prontamente battezzata
"Monte Spaccato".
Ancora alcuni faggi nodosi e secolari, più volte spezzati dai fulmini e...
i ricordi svaniscono in una nebbia simile a quella che dopo il temporale
sale lungo i canaloni e avvolge dolcemente le cime più alte.
Innumerevoli volte sono tornato a Selva Grande. Per i funghi, i mirtilli,
le faggete dimenticate e la neve nei canali; per salire al Gorzano in una
notte di plenilunio o semplicemente per vedere se è veramente forte,
quando soffia davvero, il vento a Colle del Vento... e poi, ovviamente,
per l'acqua. Per quella irruente delle cascate in piena allo sciogliersi
delle nevi o quella che, limpida e tranquilla ma pur sempre freddissima,
riposa nelle vasche di pietra viva; per quella che d'inverno gela e
solidifica in forme cristalline, gioia degli occhi e dei ramponi, e anche
per quella che ormai non c'è più, giù nella gola silenziosa, perché se l'è
presa l'Enel, e a noi non rimane altro da fare che immaginarla libera e
impetuosa, tonante come doveva essere un tempo.
E’ durata anni l'esplorazione dell'alveo, un pezzetto alla volta, senza
fretta. Infine, quando ogni tratto fu noto, venne il momento di riordinare
le idee, di ricomporre ogni frammento in un mosaico unico.
Si scendeva senza fatica lungo il nastro trasparente che divide gli umidi
boschi della Pacina dai pendii aspri e spogli della Solagna. In un
caleidoscopio di verdi dalle mille tonalità, da quello smagliante dei
prati al sole a quello cupo dei tassi affacciato dalle rupi, seguivamo
l'acqua correre schietta in un ruscello, ruzzolare saltando da un gradino
all'altro di una ciclopica scala scolpita nel tufo, scivolare svelta e
schizzare all'improvviso nel vuoto tuffandosi nel profondo di un'ampia
pozza. Poi, quando le possibili variazioni sul tema sembravano ormai
esaurite, il colpo di scena: il greto del torrente, quasi rinnegando se
stesso, barattava la sua ruvida anima di grigia arenaria con una più
calcarea e alla moda, trasformandosi in una forra scura e fascinosa. La
attraversammo in un tempo indefinito, come risucchiati dal vortice di un
buco nero: dall'altra parte ci attendeva un mondo diverso. Le montagne si
erano allontanate e attorno a noi non si ergevano più i fusti diritti dei
faggi. Al loro posto una macchia bassa e ispida fronteggiava il giallo
della paglia e il bruno della terra arsa. Scomparso il leggero odore della
sabbia umida, nell'aria calda esalavano essenze aromatiche. Sotto un sole
impietoso, nel sudore e nella fatica di un interminabile tratto di arido
greto sassoso, si stemperavano le emozioni appena vissute.
Con Vincenzo, però, quella dalle sorgenti a Capricchia non fu solo una
magnifica escursione, ma anche uno strano viaggio nel tempo. Mentre
attraversavamo la montagna seguendo il fluire dell'acqua, tornavano alla
mente ricordi remoti e vicini e, in una continua dissolvenza, immagini ed
emozioni ora chiare e distinte ora appena intuite. Alla fine, più forte
che mai, la sensazione di aver esplorato non uno ma cento fossi di Selva
Grande.
Non è facile farsi un'idea unitaria di un torrente così vario, specie dopo
averlo osservato con occhi sempre diversi, provando - ogni volta con animo
differente - emozioni che non abitano più quell'alveo, ma solo la memoria.
Ritrovare il torrente che tanto mi entusiasmò in un'età in cui era più
facile meravigliarsi non è possibile; l'ho cercato ingenuamente, ma al suo
posto ce n'era un altro, nemmeno tanto somigliante. Anche l'ingresso della
gola la prima volta era diverso, ho controllato le diapositive. Certo, la
luce non è mai la stessa, e chi fotografa sa cosa vuol dire, ma... Non si
era sicuri di cosa ci fosse laggiù in fondo: dal sentiero non si capiva
bene, si intuiva solo, e quando finalmente fummo sull'orlo del primo salto
del canyon, dinnanzi a quel vuoto così attraente, quale luce avrebbe
potuto rendere il luogo più entusiasmante?
D'altra parte è anche vero che nel tempo il fosso cambia e che qualche
sorpresa la riserva sempre. La pozza dove tante volte ti sei tuffato un
giorno scompare cancellata da una piena; l'acqua ferma e limpida in cui si
specchiano argentee le placche levigate della forra, un'estate la trovi
inspiegabilmente torbida e limacciosa. E può anche sorgere il dubbio che
non si tratti del solito torrente quando il cielo di luglio scompare
occultato dalla volta di un'inattesa galleria di ghiaccio rilucente.
Così, in fin dei conti, non stupisce più di tanto l'assenza dell'acqua
proprio lì dove dovrebbe essere più abbondante, anche se questa volta non
è colpa di una natura un po' bizzarra, ma solo dell'invadenza dell'homo
energeticus. Un'invadenza e un'arroganza così naturali per la
mentalità occidentale, che a Capricchia c'è ancora qualcuno che
innocentemente si interroga sul perché e sul come mai un giorno non si sia
più vista quella maestosa coppia di aquile reali che aveva il nido accanto
alla cascata del Fosso della Corva. Eppure per anni i grandi rapaci erano
stati così puntuali all'incontro con le gesta ormai mitiche di un glorioso
montanaro che, arrampicandosi a piedi nudi su quella pietra terrificante,
regolarmente ogni anno ne razziava la prole...
Manilio Prignano
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Manilio Prignano è morto domenica, mentre arrampicava agli speroni della Mentorella.
Personaggio conosciuto nelle falesie laziali, era anche un artista
http://www.manilio.eu/italiano/immagini-frame.htm
ricordi personali non ne ho, lo conoscevo solo di vista. Un cenno, un sorriso e via.
Lo saluto con le parole che Cristiano (Frentano) gli ha dedicato:
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Data d'iscrizione : 25.11.11
Un saluto :: Commenti
Re: Un saluto
Anche io lo conoscevo di vista. Avevamo partecipato insieme al primo numero di Intraisass.
Questo il suo contributo:
http://www.intraisass.it/Maiore.htm
Questo il suo contributo:
A sinistra del Majori | |
di Manilio Prignano | |
Prologo Il Sirente è una montagna bellissima. Quando nasce, nel mezzo dell'Altipiano delle Rocche, sembra un colle come tanti, ma poi il suo crinale, invece di scendere dall'altra parte, continua a crescere e salire senza posa, disegnando una enorme mole allungata che si protende verso sud-est per chilometri. Ai piedi del ripido e verdissimo fianco nord-est si adagia una serie di stupendi pianori carsici: i Prati del Sirente. Tra questi e le pareti che sorreggono la cresta si distende un'ampia e rigogliosa faggeta che con morbide ondulazioni fascia tutta la montagna. Al contrario il versante sud-ovest digrada nudo verso la Marsica. Tutto il Sirente è attraente, in ogni stagione, ma la Neviera e il Canale hanno un fascino tutto loro. Sirente. Silenzio Prati di Canale. Agosto. La luna sale lenta sui faggi. Puntuale l'allocco sorvola la radura con un fruscio appena percettibile. Ombra tra le ombre nel fascio di luce lunare. Silenzio. Il sole scalda l'aria nella tenda fino a renderla irrespirabile. Ci svegliamo. L'acqua del fontanile, gelida sulla pelle, squarcia improvvisamente la densa bruma in cui ancora ci crogiolavamo. Mangiare pigramente, dormire ancora. Vivere per un po' come i tritoni che, sospesi a mezz'acqua nelle trocche della fonte, immobili attendono senza tensione. Di tanto in tanto salgono a prendere una boccata d'aria, poi dolcemente risprofondano nel silenzio trasparente dell'acqua ferma. Uno, due, tre giorni... un rumore! Aprendosi un varco nel torpore mattutino una cadenza giunge all'orecchio. Solenne incede una vacca. Austera passa e scompare. Silenzio. Il sole abbagliando supera il culmine della parabola, poi scivola adagio oltre le cime e sfiorandole le fa arrossire. Di nuovo un rumore, un suono quasi dimenticato: un ragazzo su una moto. - Avete visto una vacca bianca? - E subito si dilegua nella direzione indicata. Silenzio. C'è al Sirente la Pala di Monte Canale Lontano, ai margini della montagna, dove le rocce si diradano e i ghiaioni scorrono larghi e tranquilli, spicca limpida l'elegante linea della sua cresta. Chiara ti ammicca tra le fronde, quando riemergi dalle profondità della faggeta. La guardi e ne ammiri lo slancio. Lo sai, è un cristallo in frantumi, una delicata costruzione del tempo incapace di sostenere il peso di un uomo, eppure vorresti toccarla. Così scivoli lungo l'orlo del bosco fin dove il lenzuolo verde lambisce la pietra. Ecco, basterebbe allungare la mano, ma... meglio non sfiorarla nemmeno, già è tanto che tolleri il raggio degli occhi vicini. È fragile ora come l'ultima volta che inseguendo sogni di grandi avventure avevi ceduto alla sua inconsapevole malia. Stai per andartene quando qualcosa ti spinge a voltarti: dalle mille facce del cristallo mille occhi ti fissano - torna, se diventi più leggero - sussurra la Pala. Piano di Canale E' bello, volgendo le spalle all'Altipiano delle Rocche, avviarsi verso Secinaro e correndo alti sui Prati del Sirente lasciare a lungo lo sguardo spaziare. Poi, quando la strada s'accosta alla montagna, s'incontrano i ruderi dello Chalet e chi ne ha voglia può liberarsi dell'auto e farsi sedurre da un ombroso tratturo che inoltrandosi per una comoda valletta in breve conduce fuori dal bosco, là dove si apre il Piano di Canale. In alto i valloni sono ancora bianchi di neve, ma tutto intorno l'inverno ha ceduto all'incalzare della primavera. La faggeta circonda i prati colorati sfoggiando un abito smagliante di clorofilla fresca. Tutto è teneramente luminoso, anche le grigie rocce della Neviera. Vale la pena di perdersi nei piani, travasare i passi da una conca all'altra e scoprire nell'ultima l'incanto di un effimero laghetto. Non so se nelle vasche dei fontanili i tritoni ci siano ancora. Certo è che la radura dei miei sogni ora è deturpata da bellissimi tavolacci e rustiche panche, dal sapore così autentico da far concorrenza a un würstel di pollo. Eppure l'aria è la stessa di sempre e i sogni non hanno smesso di esalare leggeri dall'erba umida e grassa di quei praticelli nascosti tra i faggi, così abili e discreti nel convincerti a sdraiarti al sole e lasciarti andare... La Neviera Una lunga salita attraverso le monotone maglie di una rete di faggi sempre fitta e compatta diluisce il senso del tempo e corrode l'abitudine a muoversi tenendo d'occhio gli amati punti di riferimento. I tornanti della mulattiera imprimono al cammino il loro ritmo e ad ogni curva il concetto di meta perde un po' del suo smalto. Poi finalmente un pugno di cielo rompe l'ombra del bosco ed ecco i picchi della Neviera. Se la cura dei faggi avrà sortito il suo effetto, sarà facile dimenticare il sentiero per la vetta e, con un tuffo attraverso un'ultima frangia boscosa, raggiungere le rive dei mari dell'instabile, le immense pietraie dello Scurribile. Qui salpare è saltare, da un masso all'altro, senza mai fermarsi a cadere. Giunti ai fiumi dei sassi fini, risalirli col passo che sale scendendo (ovvero con un piede che s'alza mentre l'altro sprofonda), e constatare come a volte la distanza che ci separa dalle pareti sia solo una parte di quella da colmare per raggiungerle. Finalmente l'approdo! I piedi godono sentendo il sicuro sulle pietre caparbiamente serrate dalle radici dei ginepri e una solidità ancor più gustosa la vorrebbero sentire le mani, che saggiano la roccia desiderose di appigliarsi. Vorrebbero... ma, si sa, da queste parti si possono costeggiare le pareti per chilometri nella vana ricerca di una sicurezza che questo calcare non può dare. Così, perso il concetto di meta, si finisce per perdere anche quello di scopo... ed ecco il respiro lento dei canaloni, le grida acute dei gracchi, l'alito gelido dei ghiacciai estinti che ancora emana dagli anfratti più cupi per poi svanire tra le chiome di betulle gentili. Più in alto creste aguzze, spigoli sospesi e, scavalcando il crinale, l'inatteso distendersi degli occhi sugli infiniti pendii erbosi che calano piano a sciogliersi nell'ampia foschia del Fucino. Uno sguardo all'indietro, per un attimo, comprende il Sirente... Dall'altra parte Sul versante marsicano pendii desolati si susseguono senza soluzione di continuità. Dove sali, sali. Nel deserto obliquo di sassi rugosi spicca qua e là un ispido cespuglio tenacemente radicato nella pietra; il marrone colorato della chioma sbatte vivo contro il blu del cielo autunnale, profondamente risonante. Le pecore attraversano l'estate risalendo i pazienti pendii della Macerola. Ogni giorno milioni di passi senza meta, disegnando linee senza senso, giungono sull'orlo del grande vuoto. Poi torna il freddo. Nessuno rimane in Val d'Arano. La solitudine allarga tranquilla il suo gelido manto stellato e la vegetazione, stremata da miliardi di morsi, si addormenta. E' l'autunno montano dei prati arrossati. Seguendo un percorso privo persino della logica erbosa degli ovini, anch’io giungo sul limite dell'altopiano. Dalla cresta che si spinge nel cielo, vedo i pendii raggiungere il culmine e poi rompersi in mille rocce bianche che precipitano nel vuoto come immobili spume scroscianti. Attraverso l'oceano del tempo, corre il Sirente, immane onda di pietra. Navigatore solitario Più volte m'è capitato di imbattermi sulle pendici del Sirente, e anche sul crinale, nei resti di misteriosi circuiti e meccanismi. Conservo ancora uno strano ingranaggio dal rumore curioso… Un'arietta gelida e insistente mi guida con morbida determinazione di là dalle dune di pietra, dove, quasi mare calmo in un porto, si raccoglie un lembo di prato verde. Al riparo dai refoli ghiacciati, protetto da un'ansa rocciosa, sciolgo i miei brividi e lo vedo: come in una vera cala segreta, uno strano relitto giace sul fondo della dolina con un'iscrizione scolpita sul fianco*... __________ Navigava in perfetta solitudine. Sospeso su abissi siderali, veleggiava lasco solcando cieli profondissimi, alla ricerca forse del confine tra il nero e il blu. Di tanto in tanto folate dispettose, cogliendolo di sorpresa lo facevano sbandare; allora i bianchi ingranaggi del suo cuore, feriti dalla incomprensibile prepotenza del vento, riprendevano pigramente a ruotare e il silenzio rarefatto di quel vuoto impossibile si incrinava rigato da un malinconico ronzio. Struggenti variazioni su un suono solo si sprigionavano senza speranza di essere ascoltate, come il canto di un nostromo solitario su un vascello alla deriva. Chissà da quant'era in viaggio e se mai avesse scoperto qualcosa sui confini del cielo quando giunse l'inevitabile naufragio che costò la vita all'ignaro bacherozzo su cui piombò al termine di una lunghissima caduta, dagli spazi infiniti della stratosfera... a quelli del Sirente. __________ *Osservatorio meteorologico di... Re Torrione della Neviera C'era una volta, nelle terre di Canale, Re Torrione della Neviera. Il nostro re, con procedura alquanto insolita, faceva di persona gli onori di casa ai viandanti che attraversavano il suo regno diretti alla cima del Sirente. Ostentando la forma turrita (un po' tozza in realtà), Re Torrione si presentava vantando le nobili origini che lo distinguevano dalle rocce di bassa lega accalcate intorno alla Neviera. - Dove andate? - diceva poi ai passanti - Non vale la pena di seguire quel sentiero, non c'è niente d'interessante da quella parte. Salite da me piuttosto, potrete arrampicare! Guardate che fessure eleganti e che vetta dalla spiccata individualità! - Ogni tanto tra i pellegrini di passaggio ce n'era qualcuno sensibile alla parola magica ‘arrampicare’ che si fermava a scrutare il torrione. Non ci voleva molto però a capire che, a dispetto della figura invitante, la sostanza era la stessa delle altre pareti: un calcare bianco e friabile che oltretutto, mentre il Re pronunciava i suoi discorsi, lo smentiva a chiari gesti lasciando intendere di non voler essere neanche sfiorato. I viandanti se ne andavano ridacchiando, ma Re Torrione, che non sospettava minimamente di essere messo in ridicolo dalla sua stessa roccia, continuava senza scomporsi a porgere i suoi inviti. Un giorno, esasperato dalla, a parer suo, incomprensibile indifferenza mostrata nei suoi regali confronti, stolido com'era se la prese col figliolo, Principe Pilastro, reo di essere argenteo e compatto, evidentemente diverso da lui e quindi indubbia causa dei suoi insuccessi. Decise perciò di punirlo relegandolo in un angoletto seminascosto ai confini del suo regno, sicuro tra l'altro che così facendo avrebbe reso ancor più evidenti le rotte fessure di cui andava tanto orgoglioso. E così fu. Qualche tempo dopo caso volle che passassero di là alcuni bambini in cerca d'avventure e luoghi misteriosi e per loro fu facile indovinare il posto dove era segregato il Principe Pilastro. Senza farsi scoprire lo liberarono dalla solitudine e divennero grandi amici. Ancora oggi, mentre il Principe gioca all'arrampicata con i suoi nuovi compagni, Re Torrione ignaro si ostina a lanciare i suoi vani richiami. ____________________ Nota storica* Arrampicare alla Neviera e Monte di Canale Sebbene si sospetti l'esistenza di qualche vecchia via, le prime notizie sicure di arrampicate effettuate in questo settore del Sirente risalgono solo al 1979, anno in cui Armando Baiocco ed Ettore Pallante realizzarono la via dei Vecchiacci allo Sperone Centrale. Dopo di loro pochi altri si sono dedicati all'esplorazione alpinistica di queste pur evidenti strutture. L'Altare della Neviera viene salito nell'84 da Manilio Prignano, Stefano Cottarelli e Vincenzo Ricciotti per lo spigolo Nord, quasi un pilastro a parte. Nel ‘92 tornano Baiocco e Pallante per salire la cresta Nord dello sperone di Monte di Canale mentre, sulla stessa montagna, la Pala deve attendere fino al 1994 perché qualcuno (sempre Baiocco con Moreno Cecconi) trovi il coraggio e la giusta determinazione per affrontare e risolvere il suo evidente spigolo Nord. Nel corso dello stesso anno Giancarlo Guzzardi, Enzo Paolini, Giulio Scalzitti e altri alpinisti di Sulmona, protagonisti su queste montagne di una cospicua attività invernale, tracciano altre due brevi vie sulle rocce di Monte di Canale ed una sull'Altare della Neviera. Prignano e Paolini si rifanno vivi nel ‘96 salendo il Pilastro dell'Indio, un evidente sperone del Peschio Pedone, mentre Guzzardi e Scalzitti, ad inverno iniziato, scalano il Pilastro dei Peligni al Peschio Gaetano. Il ‘99 vede ancora in azione Prignano e Paolini, che prendono di mira il settore compreso tra la Valle dello Scurribile e la Val Lupara effettuando la prima salita della parete Nord-Est di Quota 2277, per il pilastro centrale. Gli stessi si ripetono nell'estate 2000 salendo la cresta Est della medesima struttura e, in compagnia di Gaia Prignano e Valerio Paolini, la cresta Nord di Quota 1995, sempre nello stesso settore. A dispetto della loro logicità però, della dozzina di vie aperte finora su queste pareti, solo poche sono consigliabili. Le altre presentano tutte tratti, anche lunghi, di roccia friabile o instabile e ciò spiega chiaramente il perché della scarsa frequentazione di queste strutture. Ciononostante una giornata d'arrampicata nel silenzio di questi valloni ha un fascino innegabile (d'altri tempi, forse... ). Nel caso decideste di provarlo, portate qualche chiodo, dadi o friend (specie di misura media), anelli di fettuccia anche grandi e soprattutto non dimenticate il casco! Ricordiamo infine che la storia alpinistica del Sirente è trattata in modo esauriente in Appennino d'inverno di Vincenzo Abbate (Andromeda Editrice, 1995). *questo paragrafo, coerentemente con la stagione cui fa riferimento il resto dell'articolo, è dedicato esclusivamente all'arrampicata estiva su roccia. | |
<1997-2000> | |
Manilio Prignano |
Frentano ha scritto:Un ultimo saluto ad un uomo che avrei voluto conoscere prima. Ciao Manilio
azz cristiano, dio santo
è da ieri che pensavo e ripensavo chi era che mi aveva detto che stava a nettuno ... poco tempo fa, con te, a sperlonga
ciao manilio
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