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DECADENZA - Jolly Lamberti da climbook.com

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Il sole, intanto, si era tuffato dietro la collina di fronte, cosí, senza preavviso. Di colpo le pareti, dal giallo-rosso-arancio erano cambiate in marrone-grigio- rame. La motosega, che instancabilmente rombava tutto il giorno tutti i giorni, nel fondo di quella squallida valle, fatta di case non finite, in perfetto stile Calabro-Ionico, e rabberciati rimessaggi agricoli, aveva finito di scocciare. Il vento pure era cessato. Come se il sole, nascondendosi, avesse dato il segnale al vento di esaurirsi e al motore di fermarsi. Solo che il gruppo, ora, cominciava a sentirsi: si erano spostati tutti nel settore del “Druido"
da www.climbook.com
Decadenza
Scritto da Jolly Lamberti il 08-06-2012 in Storie vere


Essendo abituati a muoversi in branco, non è infrequente vederne anche sei/otto ad assediare la stessa via; mentre uno scala, sotto c’è chi da consigli urlando ( di solito almeno due persone assieme, generando cosí nel malcapitato uno stato confusionale simile a quello di che è appena scampato ad un disastro aereo), chi nervosamente attende il suo turno, e chi spera nella disfatta del rivale e attende la sua caduta per malrecitare un fintissimo " che peccato". Un vociare lontano di scalatori urlanti si propagava nell’aria, fastidioso come una radio mal sintonizzata, che solo alle orecchie, presuntuose e snob, di chi aveva cominciato a scalare nell’azzurro silenzio delle montagne, poteva apparire sacrilego. Decidemmo dunque di spostarci più a est, verso settori isolati, per restare soli a continuare le nostre schermaglie. Ci incamminammo per il sentiero che costeggiava la falesia. Sopra pendevano da tutte le parti vecchi rinvii scoloriti, abbandonati da chi stava cercando da lungo tempo, e senza successo, di salire questo o quell’itinerario. Sulle vie più frequentate, gli appigli e gli appoggi erano evidenziati da bianche strisciate di magnesia, come dei bersagli dentro cui lanciare le proprie dita. Sotto, si potevano vedere resti di giocattoli abbandonati e sporchi, lo scheletro di un vecchio passeggino, pezzi di nastro per le dita, cicche di sigaretta. Ancor più sotto, uscendo dal sentiero principale, ed affacciandosi appena nel rado bosco di piccole querce , ci si imbatteva in un maleolente campo minato con resti di merda umana, scatologicamente decorato con lunghi drappi di carta igienica ( nel caso di evacuazione maschile) oppure di ancor meno igieniche e degradabili salviette umidificate ( nel caso di eiezione femminile). Arrivammo, silenziosi e inosservati, fino al settore principale, dove era riunito il Branco. Solo uno di loro stava scalando. Con le mani era avvinghiato alla parete come un edera su un vecchio muro, mentre la metà inferiore del corpo eseguiva una personale interpretazione del laterale, rassomigliante ad un bassorilievo egizio. Il resto del gruppo, sotto, lo incitava e lo scherniva allo stesso tempo, eppure il malcapitato rimaneva pressoché immobile, a parte quel leggero tremore al polpaccio, che faceva intuire un certo nervosismo. In realtà era terrorizzato; il cervello si era completamente scollegato dal corpo e ora mente e fisico erano due cartesiane entità separate, che bisticciavano tra loro. La sua schiena stava diventando sempre più lucida di sudore, e questo metteva in risalto i suoi muscoli, come un culturista che si fosse appena cosparso con l’olio, rendendo ancora più scandaloso il contrasto tra tutta quella forza inutile e le due ronchie che aveva in mano e non riusciva ad utilizzare. Quando ormai tutti pensavano che si sarebbe sedimentato, diventando un tutt’uno con la parete, e che gli scalatori futuri lo avrebbero utilizzato come appiglio, successe una cosa strana.
Tutti, di colpo, si azzittirono, e una sorta di gelo piombò sulla fauna locale, come se qualcuno lassù avesse schiacciato il pulsante Pausa.
Torniamo allora indietro di qualche fotogramma e zummiamo sulla scena che si stava svolgendo un poco più a destra.
Un paio di vie a fianco, sulla stessa parete, arrampicava il Pennellone. Con la corda dall’alto e senza rinvii messi, godendosi quel tipo progressione perfettamente fluida che consiste nello scalare senza dover mai moschettonare o smoschettonare. Procedeva silenzioso e, contrariamente al solito, non emetteva alcun verso durante la salita. Il Pennellone è solito comunicare unicamente con una sorta di risata, non una vera e propria risata umana, diciamo più un urlo animalesco che sa modulare in molti modi, per poter trasmettere cosí tutta la gamma delle sue emozioni ( in realtà molto poche). La sua risata può essere agghiacciata, sghignazzata, invettiva, sfottente, sarcastica, divertita, acuta o baritonale. Ma quasi mai umana; è in grado di passare dallo stridore di un pipistrello al canto di una balena passando per il verso di una iena. Una specie di alfabeto morse che si basa sulla ampiezza e la frequenza d’onda del suo sghignazzo, che i suoi amici riescono a interpretare. E’ molto probabile che egli sia anche in grado di emettere suoni al di fuori del campo di udibilità dell’orecchio umano. In quel frangente, comunque, appariva tranquillo, e neppure mostrava dall’espressione il suo costante disgusto verso la quasi totalità degli altri scalatori ( con un’ unica eccezione: F Legrand, che un giorno aveva persino posato assieme a lui in una foto, che ora conservava come una reliquia). E neanche sembrava particolarmente infastidito dal gruppo chiassoso alla sua sinistra; rispetto a loro, se fosse vissuto in un ecosistema primordiale, egli probabilmente avrebbe occupato un anello superiore della catena alimentare, ma oramai il branco si era meglio adattato al civilizzato contesto attuale.
Ad un certo punto la confusione sembrò aver raggiunto il culmine e ognuno urlava più forte per coprire la voce degli altri. La baraonda provocava agitazione, l’agitazione pericolo. Qualcuno arrivò su una catena e disse qualcosa. Nessuno lo sentí. Aveva trovato la sua catena occupata da un’altra corda, era ansioso e nervoso; disse ancora qualcosa. Ma le onde prodotte dalle sue corde vocali si andarono a sovrapporre casualmente a tutte le altre frequenze, generando come unica cosa udibile un disarmonico rumore. La corda che si appropriava ingiustamente della sua catena non era in tensione. Sotto, una sporgenza impediva la vista di eventuali scalatori. Ci pensò un attimo, poi aprí il moschettone, tolse la corda usurpante, la lasciò cadere giù e ci mise la sua. Per un po’ il tempo rallentò. L’assicuratore del Pennella di colpo si ritrovò con un Gri Gri inutile in mano e un chilometro di corda lasca per terra, floscia come il pisello di un vescovo, ma molto più lunga. Il suo primo istinto fu quello di recuperare, ma presto si accorse che sarebbe stato del tutto inutile, in quanto non c’era nessun moschettone in parete. Il Pennella dal canto suo, si ritrovò improvvisamente sprotetto, a dieci metri da terra, con le mani su due buchi, e la corda completamente libera che svolazzava inutilmente sotto di lui. Come se a un trapezista avessero improvvisamente tolto la rete. Nessuno potrà mai sapere cosa gli passò per la testa in quel momento. E fu quello il momento preciso in cui qualcuno schiacciò il pulsante pausa e tutto si congelò per alcuni istanti. Poi tutto si riaccese. Di colpo.Tra tutte le possibili soluzioni, come spesso accade nelle situazioni di emergenza, quando c’è poco tempo per decidere, e ognuno vuole proporre la sua idea, venne adottata la più rischiosa.- La-aahanciame un rinvio- nitrí il Pennella. Qualcuno sotto si apprestò al lancio, come se avesse dovuto gettare in aria un cerchietto e infilarlo nell’asta per vincere un peluche ad una fiera di paese. Il rinvio partí descrivendo una parabola perfetta che, proprio davanti al Pennella, a 30 cm dal suo naso, arrivò ad una pendenza nulla. Derivata zero. Si fermò un istante per invertire la direzione. E in quel preciso istante, il Pennella tolse una mano dal tridito e prese il rinvio. Centro al primo tentativo. Lo spit era poco sopra di lui, cosi poté senza grosso sforzo moschettonare, appendersi, e abbandonarsi a profonde elucubrazioni filosofiche. " C’è stato un eccesso di controllo", proferí. E nessuno mai seppe quello che avesse voluto dire.
Continuammo a camminare, volevo allontanarmi il più possibile dalla gente e soprattutto dai sensi di colpa. Criticavo la massificazione di questa disciplina ma ne ero in parte la causa. Io stesso, come titolare di una grande scuola di arrampicata, guadagnavo fornendo servizi che indirettamente contribuivano alla decadenza, che tanto deprecavo, di questa nobile arte. Osservavo con sguardo entomologico quei ragazzi vitali e puliti dall’alto di un piedistallo; mi stupivo quando qualcuno di essi si stupiva del fatto che nelle falesie non ci fossero gli spogliatoi con le docce; li deridevo per lo scandaloso divario che avevano tra la forza fisica e il risultato sulla roccia vera. Ma io stesso non li avevo educati. Non gli avevo spiegato che sulle pareti gli spit non si sono formati come le stalattiti, ma che qualcuno li aveva messi facendo un lavoro volontario e non pagato. Ero stato io a non porre la Fluidità e lo Stile, al di sopra, addirittura, del Grado. Avevo nostalgia della vecchia elite, ma conducevo un tenore di vita che non mi sarei potuto permettere, se fossimo rimasti quattro gatti come allora. Odiavo le comunità internet di scalatori, ma consultavo i loro forum per vedere che opinione avesse la gente. ( continua)
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