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SETTE ANNI AI PIEDI DELL'HIMALAYA

A partire dal Sudtirolo, attraverso Bologna, Monaco. Fino in India. La storia di uno scalatore "gaudente", curioso ed antieroico, la cui radice britannica, unitamente alla cura medica delle sofferenze umane, ha spinto a desiderare, al di là dell'odio tedesco verso l'Italia fascista, la fraterna convivenza dei popoli.

Lutz Chicken, medico e alpinista di Bressanone, nato a Klagenfurt il 31 Luglio 1915

da un vecchio sito web intervista di Elena Widmann ed Augusto Golin

Membro della spedizione in Himalaya del 1939, appoggiata dal regime nazista, braccato insieme agli altri allo scoppio della guerra, non fugge come Harrer (autore del libro Sette anni nel Tibet) verso il Tibet. Ammalatosi di malaria, resta nel campo di concentramento in India e sceglie l'esperienza forse meno avventurosa ma non meno arricchente di medico in una comunità multiculturale di internati. Abbiamo raccolto affascinati la sua storia.

Avevo solo sei settimane quando sono arrivato a Bolzano e qui sono poi sempre stato, ho frequentato tutte le scuole. Quindi mi considero proprio un bolzanino, però di origine inglese. Mio padre aveva conosciuto il Sudtirolo durante un viaggio e si era detto: che meravigliosa terra, qui vorrei vivere. Lui era nato da genitori inglesi in Boemia, a Cheb, tra quella minoranza tedesca che abitava i Sudeti, nell'angolo nord-occidentale della Boemia. Lì quasi tutte le miniere carbonifere erano in mano agli inglesi. Mio nonno vi si era trasferito come "prospector", cioè chi ha pratica di cercare nuovi luoghi per gli scavi. Un giorno mio padre ha letto su un giornale che cercavano un cassiere in una banca che aveva appena aperto nella via Argentieri/Silbergasse, l'attuale Banca Popolare/Volksbank. Venne così a Bolzano e vi si è sistemato. Era il 1908. Ci è rimasto tutta la vita, diventando in breve direttore della banca. Aveva una grande passione per la montagna ed era un bravo sciatore. Mia madre, del resto, nel 1914,al quarto mese di gravidanza, andava ancora a sciare. Con le gonne lunghe, come usavano le donne all'epoca.
Ho frequentato le scuole elementari ancora in lingua tedesca, dal '21 fino al '26, poi, passando al ginnasio dei Francescani, sono passato all'insegnamento in lingua italiana, come previsto dalla normativa scolastica fascista.

Non ha vissuto l'insegnamento in lingua italiana come un'imposizione?

Certo noi di madrelingua tedesca ci sentivamo cittadini di seconda classe, colonizzati.. Non potevamo parlare in tedesco nemmeno nei corridoi. Però la qualità dell'insegnamento era lodevole. Il forte sentimento nazionalistico che ci escludeva e mirava a italianizzarci, è stato alla base della nostra avversione verso gli italiani. Anch'io l'ho sentita. Credo anche che la gente che abita in una zona alpina sia anche portata a tenere le distanze dall'altro, ad essere diffidente. Quegli eventi hanno naturalmente irrigidito ancora di più i rapporti fra italiani e tedeschi. Poi molto è cambiato.
Nel '26 -'28 ci riunivamo in piccoli gruppi di studenti per coltivare lingua e storia tedesca. Erano cellule di opposizione interne alla scuola. Più tardi sono nate anche le scuole clandestine (Katakombenschulen), e tanti di quelli che vi hanno collaborato sono stati confinati a Lipari. Opposizione e resistenza era ed è del resto una reazione umana all'oppressione.
Abbiamo sempre tenuto i contatti con i nostri parenti in Inghilterra. Mio padre parlava molto meglio il tedesco dell'inglese, perché era cresciuto in quella parte tedesca della Boemia, ma ugualmente mi incoraggiò, dopo la maturità, ad andare in Inghilterra, a conoscere la lingua e la cultura inglesi. Avrei potuto sistemarmi lì, se avessi sentito un forte richiamo a fermarmi in quei luoghi. Ho fatto molte escursioni lì e ho viaggiato anche fino in Scozia, ma poi ho preferito tornare in patria.
Sono poi stato un anno a Bologna, il mio primo anno di medicina.

Che cosa le ha lasciato Bologna?

Tutti i sudtirolesi che sceglievano medicina andavano a Bologna. Quindi eravamo in tanti giù a conoscerci bene. E, sinceramente, non ci si dedicava tanto allo studio. Eravamo "frati gaudenti". Ricordo un inverno molto freddo, nel '34 e il ritrovarsi nelle osterie. Quello che mi mancava lì, come studente, era anche la pratica. Non c'era la possibilità di esercitare l'anatomia sul corpo umano. Facevamo molta teoria ma poca pratica. Per questo dopo un anno mi sono trasferito a Monaco, dove c'era più possibilità in tal senso.

E a Monaco?

Lì mi sono messo a studiare moltissimo. Ma mi sono iscritto anche ad un club alpinisitico, l'Akademischer Alpenverein München (AAVM), pioniere nell'alpinismo himalayano in Germania. Era un'associazione studentesca, non direttamente collegata all'Alpenverein nazionale tedesco. Fra di noi emergeva la personalità di Paul Bauer, un uomo pieno di iniziativa, energico. Non era il migliore alpinista fra di noi, ma aveva un talento naturale come capo spedizione.
Poi c'era Peter Aufschnaiter (tirolese del nord), segretario della Himalaya Stiftung e forse uno dei più grandi conoscitori dell'Himalaya e della cultura tibetana in Germania. Nel film Sette anni in Tibet, Aufschnaiter è passato purtroppo in secondo piano rispetto a Harrer. Anche se devo dire che l'attore che recita la sua parte gli assomiglia proprio molto, molto più di quanto Brad Pitt a Harrer.
Aufschnaiter combinava la pratica alpinistica con lo studio. Era un uomo durissimo verso se stesso, più di Harrer. Nietzsche diceva:"Was mich nicht umbringt, macht mich hart". Quest'affermazione era molto in uso anche dal regime nazionalsocialista.

Voi cosa pensavate del nazionalsocialismo?

Noi giovani ne eravamo affascinati. Io ero nella H.J., la Hitlerjugend. La AAVM sarebbe comunque stata inglobata nel Deutsches Alpenverein del Drittes Reich. Quindi, come il CAI sotto il fascismo in Italia, eravamo sotto l'influenza politica del regime, senza dubbio. Il figlio del celebre pittore Defregger, mio amico a Monaco, mi aveva peraltro già a quei tempi messo al corrente degli aspetti più negativi dello sviluppo del nazionalsocialismo. La sua famiglia era molto critica verso il regime e aveva in parte mitigato il mio entusiasmo. Per noi giovani sudtirolesi cresciuti sentendoci cittadini di seconda classe e privi di prospettive future, a meno di non rinnegare noi stessi, il nazionalsocialismo rappresentava una speranza, la speranza di sopravvivenza della nostra identità.

L'opposizione al fascismo era più culturale ed esistenziale che politica, vista l'affinità sul piano politico dei due regimi?

Sì, era un'opposizione dovuta al fatto che il fascismo tendeva ad opprimere l'identità linguistica e culturale tedesca.
A Monaco io ero sì nella Hitlerjugend, ma ero più che altro assorbito dallo studio. Avrei voluto finire quanto prima. Ma nel gennaio del 1939 Aufschnaiter mi ha proposto di seguirlo nella spedizione in Himalaya. Non credevo quasi alle mie orecchie. Ho detto subito di sì, mi sentivo pronto. Ho chiesto però anche ai miei genitori: c'erano già stati tentativi di spedizioni in Himalaya, con diverse vittime ad ogni occasione. Loro mi hanno detto: se credi di doverlo fare, fallo. Ci credevo, e forse è stato questo a salvarmi la vita.
I giornali dell'epoca diedero molto risalto alla spedizione. Anche se noi avevamo solo l'impegno di cercare delle possibilità di salita al Nanga Parbat dal versante occidentale fino ad allora mai tentato. Siamo rimasti su 3 mesi, cercando con molto impegno possibili salite. Il grande pericolo erano le valanghe. Noi la abbiamo evitata per poco. A fine luglio eravamo tutti un po' malati e abbiamo fatto una settimana di ospedale. In agosto siamo tornati al nostro campo base, sotto il Nanga Parbat. Era molto più difficile perché il ghiaccio era affiorato essendosi la neve nel frattempo sciolta. La massima altezza l'hanno raggiunta poi Harrer e Lobenhoffer.

Chi finanziava la spedizione?

Il finanziamento della spedizione era della Himalaya-Stiftung. Può darsi che sia giunto qualche contributo dalla direzione sportiva del Deutsches Reich. Ognuno di noi, inoltre, aveva dovuto contribuire personalmente.

Tornando all'ambiente alpinistico di Monaco di quell'epoca, con quale spirito erano vissute le vostre spedizioni? Non era forse il vostro un "zum Tode sein"?

Il mio senso della montagna l'ho appreso qui, in Sudtirolo. L'impronta io l'ho avuta dalle passeggiate che facevo da ragazzo con mia madre e mio padre, che erano molto portati per la montagna. In seguito ho continuato da solo, con i miei coetanei, e ho cominciato a scalare sulle Dolomiti, anche senza esperienza, rischiando e divertendoci come i matti. No, non eravamo molto impregnati dello spirito eroico di acuni alpinisti dell'epoca vagheggiato dallo scrittore e alpinista Eugen Guido Lammer. Era un alpinismo eroico, romantico: lo scalatore era un eroe che "vinceva" la montagna. Per noi invece lo scopo non era conquistare la cima. Avevamo cominciato da ragazzi, per gioco, con entusiasmo e curiosità. Io, in particolare, - e qui c'entra forse anche la mia origine britannica - ero sempre portato a scoprire nuovi ambienti. Anche sull'Himalaya ho sempre predicato di lasciare perdere gli 8000 oramai di moda e meta di tanti scalatori, per dedicarsi piuttosto ai tanti 6-7000 nuovi da salire. Per me l'alpinismo è un "Entdecken", "Neuland betreten", un visitare nuove terre. Oltre il quinto grado non ho mai scalato. Dal 1987 al '96 ho fatto ancora scalate. E scoperto tante nuove vie. Ritornato dall'India, iniziata la mia professione di medico, avevo poco tempo. La mia pratica era qui, fra le montagne, perché dovevo visitare tutti i masi a piedi e questo mi ha tenuto in ottima forma fino ad età avanzata.

Che cosa ricorda dell'esperienza del lager in India?

Allo scoppio della guerra siamo stati catturati dagli inglesi. Durante il trasferimento al campo di concentramento nel Sud dell'India, a Dehli mi hanno dovuto far scendere dal treno, perché avevo una febbre altissima a causa della malaria. Sono stato all'ospedale per qualche giorno. Guardavo le belle infermiere con tanto di occhi... Mi ero dimenticato che esistevano le donne! Purtroppo lì sono rimasto solo 3 giorni. Poi mi hanno condotto nel campo in cui i miei tre compagni erano già stati internati. Lì ho potuto aprire un ambulatorio del campo e l'anno dopo lavoravo anche all'ospedale: prima in laboratorio, poi come istruttore degli infermieri, poi col tempo mi hanno dato uno spazio tutto mio. Avevo iniziato a scrivere la mia tesi di laurea. Questo lavoro, che mi ha preso due anni, è stato molto apprezzato sia a Monaco che a Bologna, perché era uno dei pochi lavori sperimentali scritti in quegli anni. Riguardava l'influenza di altre malattie nelle ricadute di malaria.
Quella del lager era una comunità internazionale, plurilingue. Specialmente nell'ospedale. C'erano molti militari italiani e i dottori erano tutti di lingua tedesca. Era il campo di internamento eretto per persone catturate in India. Fra noi medici c'era un continuo scambio di conoscenze e molta collaborazione. Io ero anche segretario dell'ordine medico e avevo sempre da scrivere. Insomma, ero occupatissimo colla medicina. E così anche ho avuto meno sofferenze dall'internamento. Quando sono tornato, anche se non mi ero specializzato, avevo però una formazione medico-chirurgica invidiabile grazie a questa esperienza. Questa mi ha spinto a fare il medico generico, e di strada, di maso in maso, dopo l'ambulatorio, per tanti anni. Ed ero contento di questo. Ho sviluppato una mia filosofia personale, quella di sentirmi bene con poco. Ero contento, anche se c'era da partire di notte per salire in montagna, perché avevo il piacere della camminata e di vedere i camosci e le lepri. Insomma questo lavoro mi ha portato più vicino di quanto non credessi alle filosofie orientali. Un lavoro davvero estenuante: anche 10-11 ore al giorno, spesso. Ma mi piaceva. Certo alle filosofie orientali manca l'attivismo di noi europei. Io sono europeo di tutto cuore. Mi sento anche tradizionalista, legato alla mia terra, alla mia gente. Come pure sento, da europeo, una comunanza con gli italiani, gli inglesi e gli altri popoli a noi vicini. Forse grazie a questa mia radice britannica, mi sono sempre sentito portato ad una convivenza fraterna e solidale.

Perché non è fuggito pure lei insieme a Harrer?


Harrer era fuggito due volte ed era stato ricatturato. Fino alla fuga di quelle sette persone, che si vede anche nel film, tutti i tentativi erano falliti; i fuggiaschi erano ritornati al campo o di loro spontanea volontà o perché malati o riacciuffati. Io credo che se fossi fuggito anch'io e mi avessero ricatturato, non mi avrebbero più dato fiducia, impedendomi di esercitare liberamente la mia professione. Il rischio di tornare nel lager senza più poter lavorare come medico mi ha fatto deisistere dall'idea della fuga. Così sono stato liberato solo nel 1946, dopo quasi sette anni di prigionia.

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