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Lega ladrona. Roma non perdona.

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190412

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Da http://whitetraces.wordpress.com/2012/04/19/lega-ladrona-roma-non-perdona/

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1992 Mani Pulite. 2012 Legagate. Sarà che sono abituato a pensar male ma io qualche analogia ce la vedo.

In questi ultimi giorni tutte le prime pagine e i titoli principali delle varie versioni della testata unica nazionale non parlano d’altro. Bossi sapeva. Calderoli con l’affitto pagato. Il Trota con macchina e università a spese del partito. E chi più ne ha più ne metta. Alla fine si scopre che anche la Lega rubava. E la cosa assume i toni del paradosso proprio per quello slogan gridato col cappio in mano. Roma ladrona. E si sa, quando ti proponi come santo e vieni beccato a peccare il credente s’incazza. Eh sì perché l’integrità in un Paese di banditi è sinonimo di imbecillità, mica di rettitudine. Soprattutto se esercitata in solitudine e quando il furbo accanto a te vive da nababbo o quasi.

La versione politico-mediatica della realtà però raramente è ciò che sembra. Anzi, quasi mai.

E vengo al ’92. La grande – si fa per dire – stagione di Mani Pulite quando tutti i cittadini che diventano mister ai mondiali divennero giudice e boia in un batter d’occhio. Tutti esperti di legge e finanziamento pubblico dei partiti. Proprio mentre un magistrato per caso, ex poliziotto collegato all’intelligence americana, iniziava a preparare la sua futura carriera agitando le manette nelle stanze del potere. Di Pietro e il pool di mani pulite divennero eroi nazionali. I persecutori della classe politica arraffona che per 50 anni aveva governato il Paese. Centinaia di ore di tribunale, decine di processi, qualche suicidio, alcune condanne. Il circo mediatico trasformò i magrissimi risultati di quegli anni di indagini in una svolta epocale. La prima Repubblica era morta. Era tempo di lasciar spazio a una nuova era della politica italiana.

La strategia fu sottile. Molto ben architettata. Molto meno grossolana di quella dello scontro frontale degli anni di piombo. Ma l’obiettivo era lo stesso: la salvaguardia dello status quo. Ovviamente tutto ciò aveva un prezzo. Qualche sacrificio eccellente era necessario. Cusani. La Montedison. Craxi morto in esilio. Qualche capro espiatorio immolato sull’altare del “cambiare tutto per non cambiare nulla”. La finanza internazionale e gli alleati di oltre oceano avevano bisogno di nuova stabilità per iniziare il prelievo, la spoliazione.

Il popolo chiede pane? Negli anni di piombo gli sparavano urlando “il pane è proibito e non te lo do”. Dai primi anni ’90 si è studiato come far passare al popolo il senso di fame. I romani tenevano buone le masse con panem et circenses? Nell’ultimo decennio del XX secolo si riuscirà a far sì che i circenses mettano definitivamente il panem in secondo piano.

E’ così che il grande spettacolo della purificazione, della catarsi, dei buoni che sconfiggono i cattivi acquisisce un significato simbolico fortissimo. Soprattutto se la catarsi avviene proprio sul palco su cui si giocano i conflitti. Funziona ancora di più se l’agente del cambiamento simulato viene apparentemente da fuori e, una volta eliminati scenicamente i rei, acclamato diviene egli stesso il nuovo governante. O almeno uno dei candidati all’esercizio de potere. L’epopea di Di Pietro non assomiglia solo casualmente a questo schema.

Ma è ovvio. Per una recita che si rispetti ci vuole un pubblico che applaude o che ride a squarciagola. Per far scattare l’identificazione del cittadino vero c’è bisogno di quello finto. Come in una puntata dei vecchi telefilm americani degli anni ’80 in cui ridi perché la risata ti è suggerita da quella artefatta che proviene dallo schermo. Al popolo finto ci pensano i media. E pian piano l’effetto dilaga. Tutti gridano “in galera” perché lo gridano gli altri. E quando i capri espiatori sono stati giustiziati, il popolo finto scompare e quello vero torna a casa esaltato. Soddisfatto. Pronto di nuovo a delegare tutto agli sgherri di turno.

Nuovi? E’ proprio lì la grande vittoria della “strategia dell’illusione” che segue a quella più nota della “tensione”. L’effetto simbolico della catarsi rituale messa in scena ma mai realizzata è che il popolo non si accorge nemmeno che le facce sedute sugli scranni del Parlamento sono sempre le stesse. A parte qualche rara eccezione ben addomesticata gli apparati dei partiti sono sempre lì ben saldi e agganciati alle poltrone. I delfini incaricati della successione passano in primo piano, i mentori non più presentabili tirano le fila nell’ombra. Un altro gettone, un altro giro.

A ben guardare, nel panorama melmoso dei Berlusconi che rimpiazzano i Craxi. Dei Mastella, Buttiglione e Casini che rimpiazzano gli Andreotti e Forlani. Degli Occhetto e D’Alema che rimpiazzano sé stessi. In questa palude sciatta e sclerotizzata che puzza del rancido dopobarba regalato dai lobbisti agli intramontabili mandarini e lacché di palazzo l’unica voce anomala è quella roca di un ex portantino polentone e grezzo che agita una bandiera antica spacciata per novità espiatoria.

Si chiama Umberto, nome regale ma parla la lingua un po’ rozza della sua gente. Raccoglie la protesta sterile di chi sa cosa combattere ma non bene cosa proporre e la veste del rito pagano del Dio Po. Rispolvera miti antichi e sepolti nella storia millenaria delle Repubbliche Marinare, la condisce di cerimonie barbare, ci aggiunge un po’ di federalismo fiscale e chiama tutti a raccolta nella sacra Pontida. Il polpettone è fatto. Visibilmente arrangiato ma essenziale, comprensibile, vero. Secessione! Roma ladrona! Echeggiano per le valli di un Nord mitologico più che reale gli slogan della lotta politica leghista. E la gente ci crede. Ci crede perché in effetti il movimento di Bossi rappresenta l’unica vera novità del panorama politico degli anni ’90.

Nel ‘92 con l’8% i primi parlamentari. Nel ’83 Formentini a Milano batte Dalla Chiesa candidato del centro sinistra. Da lì in poi la storia la conoscono più o meno tutti. Tutta giocata intorno a pochi concetti e a un solo, unico refrain. Dal Po in giù si annida il parassitismo para-statale che drena risorse al Nord operoso. Le risorse devono rimanere a disposizione di chi le produce. E da lì l’idea della secessione. A cui nemmeno Bossi e i suoi credono ma che è importante che agiti le coscienze della base. Roma ladrona. Dagli al diverso. All’extracomunitario. Al meridionale.

Quando la torta si fa piccola è molto più facile escludere che includere. Meglio cercare conforto nel simile e nel consueto che faticare a elaborare nuova ricchezza trovando l’equilibrio con il diverso. Soddisfare la rabbia paga in termini di voti. Chiedere sacrifici no.

La Lega in breve da movimento diventa Partito. Forza di governo. Entra nei Palazzi del potere. Ma niente secessione. Anche il federalismo stenta a diventare legge dello Stato se non in versioni diluite e appannate. Ma chi va con lo zoppo impara a zoppicare. O forse, per dirla meglio, per andare con quello zoppo devi già saper zoppicare per bene.

In una congregazione di persone che hanno in comune soprattutto il fatto di avere scheletri nell’armadio ci entri solo se anche tu hai i tuoi. Se non li hai, te li creano in poco tempo. Ognuno ricattabile, ognuno in silenzio. Ed è così che fra lingotti e diamanti anche i militanti leghisti diventano luogotenenti della Cricca. E per 10 anni l’establishment li osserva silenzioso. Gli invia segnali. Li invita alla medietà, alla recita decorosa. Gli ricorda la parte che devono svolgere nella rappresentazione della lotta politica. Cercano di fargli capire come funzionano lo spettacolo e il meccanismo catartico con cui assopire le masse. Ma i leghisti fanno il doppio gioco. Dentro a Palazzo Chigi e allo stesso tempo fuori fra abluzioni ed elmi con le corna.

Ma nel frattempo qualcosa di più esteso inizia a scricchiolare. O forse l’avidità dei singoli rischia di mettere in pericolo la presentabilità di tutti. 10 anni in cui il sistema partitocratico, al restringersi delle risorse disponibili, non riesce a rinunciare a qualcosa per non dover rinunciare a tutto. Troppo strutturata la macchina. Troppo stratificati e consolidati gli apparati. Nessuno vuole perdere niente. Tutti vogliono tutto.

La prima rappresentazione ha retto 50 anni. Meglio di un musical nel West End. La seconda rischia di crollare dopo appena 10.

Bisogna correre ai ripari. E bisogna farlo rapidamente. E’ necessario un nuovo rito catartico per soddisfare il bisogno di sangue del popolo incazzato che vive di simboli e tira la cinghia. Che rinuncia a mangiare ma non al sacrificio cruento di un nemico mortale. Non importa chi purché sia lì, venga eliminato e il bene trionfi.

Ed è così che di punto in bianco il signor Belsito diventa l’uomo più noto in Italia. Tesoriere maldestro colto in flagrante. Ma a far cosa? Ad usare fondi in maniera discutibile? Ad accumularne di neri per finanziare uomini del partito? Per fare favori al capo e alla sua famiglia? A questo o quel ministro? Magari salterà fuori che pagava bustarelle a qualche imprenditore o spingeva perché questa o quella ditta vincesse un appalto?

E quale sarebbe la novità scandalosa rivelata da queste indagini? Non è forse ciò che fanno tutti, magari in maniera meno cialtrona e senza farsi cogliere con le mani nel sacco? Dalle amministrazioni circoscrizionali delle metropoli fino all’ultimo dei ai piccoli paesini di montagna?

E allora perché questo accanimento? Perché questa indignazione selvaggia che fin dentro case insospettabili scuote la vita della gente al grido di “dagli al leghista”? Perché proprio la Lega e proprio ora?

Nello scegliere il capro espiatorio per il rito periodico di purificazione mediatica il sistema sceglie ovviamente l’elemento sacrificabile. Quello più scomodo o quello meno inserito. Quale migliore occasione per sbarazzarsi politicamente di una frangia che dopo 10 anni ancora tarda a inserirsi a pieno nelle maglie dell’establishment?

Due piccioni con una fava. Lega ladrona Roma non perdona.
Tengri
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