zero alpinismo da livellozero.net
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zero alpinismo da livellozero.net
A questo punto devo confessarlo: credo di non esser fatto per l’alpinismo.
Già… Una confessione un po’ tardiva, e forse superflua. Ma in fondo conviene essere onesti: onesti e spietati fino in fondo.
Credo che storicamente sia colpa del Finocchi (Stefano). Fu infatti lui, alla vigilia dell’estate del 1986 – eravamo poco più che infanti – a proferire la frase solenne e canzonatoria: “Ma dai! Mica vorrai andare a scalare in montagna? Ancora con le dolomiti! Che cosa da vecchi!”
Tutto, ma “vecchi” no. Sentirsi accusati di essere “vecchi “a vent’anni, proprio non si può. Così fu sancito – almeno per me – il tramonto dell’alpinismo. Il martello e i chiodi, insieme al casco, ai cordini e alle fettucce lunghe, alle staffe (!), ai dadi: tutto finì nel fondo abissale dell’armadio, sepolto da vecchi jeans e felpe ormai dismesse. Solo una coppia di friend fu sottratta a quell’improvviso repulisti e imprestata generosamente a Medioverme, che col fratello si intestardiva – nonostante la giovane età anagrafica – a voler frequentare le pareti alpine.
Da quel momento le estati furono consacrate al Verdon, a Buoux, alla Spagna. E in dolomiti ci tornai solo molti anni più tardi, per far sgambettare le mie figlie fra i boschi e i pascoli attorno allo Sciliar.
Tutto questo mi viene alla mente perché qualche giorno fa, inspiegabilmente irretito dalle pareti quasi-dolomitiche delle Marche (sì, informatevi), ho deciso di intraprendere un’arrampicata di più tiri su un enorme, selvaggio muro di calcare a tratti aggettante denominato Balza della Penna. Una via a spit, vabbè: però questo – per me – è già quasi alpinismo.
Non so bene cosa, quale oscuro demone, mi abbia spinto a tentare la salita… Il campo delle motivazioni, ormai ho capito, è un terreno misterioso per ciascuno. Ma la verità è che l’avevo presa come una gita fuori-porta.
La relazione dice: I tiro 6c, attenzione primo spit alto. “E che sarà mai, ahah! Sai quanti ne ho visti, di primi spit alti?”, penso e ridacchio tra me e me, silenziosamente. Ecco, sono fatto così. Anni di falesia e monotiri – scuola impareggiabile di arroganza e spacconeria – mi hanno fatto scordare il rispetto che è sempre dovuto all’Alpe, l’umiltà che essa richiede o (nel caso) ci insegna.
Arrivati all’attacco, con la mia compagna di cordata, noto con un certo disappunto che la parete è enorme, pressoché sconfinata, un po’ umida per la pioggia dei giorni precedenti, e non c’è nessuno nel raggio forse di cento chilometri (sono molto vaste, le Marche, quasi come la Patagonia). Quando indosso il casco alla base del grande muro mi accorgo che la cosa in sé, anziché tranquillizzarmi, mi agita. Sono le due del pomeriggio. Certo, ce la siamo presa un po’ comoda stamattina…
Vedo il primo spit: è a cinque-sei metri. La roccia là intorno è grigio-nera per il bagnato. La parete strapiomba. Mi avventuro: salgo un po’, e riscendo lesto lesto fino a giù. C’è una fessurina verticale, a circa tre metri da terra, dove ho infilato la mano destra. Sembra perfetta per un friend. Metto il friend, e poiché non posso più infilare la mano, provo a salire un metro e mezzo circa a sinistra, su delle tacche piccole e polverose. “Cazzo-cazzo, questa speravo fosse più grande…”
Sono di nuovo più o meno a quattro metri da terra, è giunto il momento di vedere se il friend tiene: “è importante e interessante scoprire se sono bravo a mettere i friend!” mi dico. (Non è colpa mia, credo, se il cervello mi parla sempre, spesso anche a sproposito). “Bloccaaaaaa!”. Bum! Il friend ha tenuto.
Mi faccio calare a terra e riparto, infilando la punta di due dita nello spazio rimasto libero nella fessurina del friend. Finalmente arrivo al primo spit, lo moschettono e continuo a salire, riuscendo così “quasi a vista” (in realtà: secondo tentativo) su uno dei 6c più duri, spittati lunghi e acciaianti della mia vita.
Sosta. Recupero lei, e parto per il secondo tiro, 6b+. In realtà è forse un grado e mezzo in meno del precedente, ma si sa: i gradi non esistono, e se esistono, sono sbagliati. Dopo un po’ capisco che la via se ne va bruscamente a sinistra verso una grande nicchia. Tipica cosa che capita solo “in alpinismo” (quando mai su un monotiro trovi un traverso di dieci metri a sinistra). Ancora sorpreso per questa linea bislacca, ma anche rapito dal colpo d’occhio sulla parete sovrastante (sono uscito dallo strapiombo), non mi accorgo che il bellissimo mega-appiglio a cui mi sto tenendo con entrambe le mani è completamente fessurato, e si scolla in quell’istante come una figurina che stai per appiccicare sull’album.
“Oh-oh!” Espressione da Willy il coyote un attimo prima di piombare giù nel canyon. Il mio corpo ondeggia in fuori e rientra. Il cuore batte a mille. Per fortuna è un tratto appoggiato, mi trovo su difficoltà di quarto, al massimo quinto. Ritrovo l’equilibrio spingendo sulla punta dei piedi e provo a reincollare alla parete il masso, che sarà largo una quarantina di centimetri. Nulla da fare, non si riappiccica più. Vuole cadere.
Brutto bastardo di un matrullo, gli dico. Un attimo fa eri tu a tenere me, e adesso sono io a tenere te. Siamo in bilico entrambi su questa parete assurda, in un pomeriggio di sole, e in un posto in cui soltanto io – penso – potevo mettermi in una situazione di pericolo.
Finalmente il cervello comincia a pensare le cose giuste. Anzitutto lei è in sosta qui sotto, esattamente sulla mia verticale. È vero che la parete strapiomba un po’, ma non sono certo che lo sia abbastanza. Grido: “attenta, c’è un problema, stai attaccata alla parete!”. Nella mia voce c’è tutta la tensione dei momenti critici.
Non so come ma sono riuscito a far scendere un poco il matrullo, tenendolo con gli avambracci, verso la parte interna del gomito: lo metto nella posizione in cui una mamma allatta un neonato, le dimensioni sono più o meno quelle. “E ora che ci faccio?” Non posso lasciarlo cadere qui sotto: qui sotto c’è lei. Potrei provare a lanciarlo, per quanto mi è possibile (pesa il maledetto), verso destra. Ma la mia corda scende proprio da quella parte. Immagino che cosa accadrebbe se il matrullo, cadendo, finisse proprio sulla corda. A sinistra c’è una specie di diedro, e quindi ritorneremmo nell’ipotesi uno: il masso potrebbe rompersi e ricadere comunque verso di lei.
Provo ancora a ragionare, per pochi lunghissimi minuti, sulla soluzione meno pericolosa. A un tratto mi rendo conto che, se sono ancora lì, è perché sto in equilibrio su una rampetta appena inclinata. Va bene – mi dico – adesso provo ad appoggiarlo qui ai miei piedi, vediamo se lui se ne sta buonino. E così è. Lo ho sistemato. Lui sembra star fermo. Lo ho convinto. “Adesso riscendo arrampicando!” grido. (Forse un altro avrebbe continuato. A me è passata la voglia, per oggi, di fare “alpinismo”). Risponde lei da sotto: “ma Luca, lascia un rinvio e calati! Se vuoi, lascia un moschettone dei miei!”
Eh no, penso, il moschettone non te lo lascio! Merda di via. Ancora l’orgoglio e la spacconeria del falesista. Mi faccio il tiro in discesa, e poi ci caliamo in doppia a terra.
Adesso, mentre scrivo, ci scherzo su. Ma la cosa lì per lì mi ha irritato, e a parte lo spavento, mi ha messo un po’ di cattivo umore. L’alpinismo è fatto, a ogni livello, di successi e insuccessi. L’arrampicata sportiva anche. Ma questa, che doveva in realtà essere – al di là delle battute – niente più che una lunga ed entusiasmante arrampicata in falesia, perché mi ha lasciato un così spiacevole retrogusto di incompiuto?
Allora ho provato a scacciare via il cattivo umore, e stavolta sono riuscito nell’impresa: mangiando una squisita piadina, bevendo una birra chiara. Ubriacandomi degli occhi di lei, che sono così belli quando sorridono.
Bibez
http://www.livellozero.net/?news=zero-alpinismo
Già… Una confessione un po’ tardiva, e forse superflua. Ma in fondo conviene essere onesti: onesti e spietati fino in fondo.
Credo che storicamente sia colpa del Finocchi (Stefano). Fu infatti lui, alla vigilia dell’estate del 1986 – eravamo poco più che infanti – a proferire la frase solenne e canzonatoria: “Ma dai! Mica vorrai andare a scalare in montagna? Ancora con le dolomiti! Che cosa da vecchi!”
Tutto, ma “vecchi” no. Sentirsi accusati di essere “vecchi “a vent’anni, proprio non si può. Così fu sancito – almeno per me – il tramonto dell’alpinismo. Il martello e i chiodi, insieme al casco, ai cordini e alle fettucce lunghe, alle staffe (!), ai dadi: tutto finì nel fondo abissale dell’armadio, sepolto da vecchi jeans e felpe ormai dismesse. Solo una coppia di friend fu sottratta a quell’improvviso repulisti e imprestata generosamente a Medioverme, che col fratello si intestardiva – nonostante la giovane età anagrafica – a voler frequentare le pareti alpine.
Da quel momento le estati furono consacrate al Verdon, a Buoux, alla Spagna. E in dolomiti ci tornai solo molti anni più tardi, per far sgambettare le mie figlie fra i boschi e i pascoli attorno allo Sciliar.
Tutto questo mi viene alla mente perché qualche giorno fa, inspiegabilmente irretito dalle pareti quasi-dolomitiche delle Marche (sì, informatevi), ho deciso di intraprendere un’arrampicata di più tiri su un enorme, selvaggio muro di calcare a tratti aggettante denominato Balza della Penna. Una via a spit, vabbè: però questo – per me – è già quasi alpinismo.
Non so bene cosa, quale oscuro demone, mi abbia spinto a tentare la salita… Il campo delle motivazioni, ormai ho capito, è un terreno misterioso per ciascuno. Ma la verità è che l’avevo presa come una gita fuori-porta.
La relazione dice: I tiro 6c, attenzione primo spit alto. “E che sarà mai, ahah! Sai quanti ne ho visti, di primi spit alti?”, penso e ridacchio tra me e me, silenziosamente. Ecco, sono fatto così. Anni di falesia e monotiri – scuola impareggiabile di arroganza e spacconeria – mi hanno fatto scordare il rispetto che è sempre dovuto all’Alpe, l’umiltà che essa richiede o (nel caso) ci insegna.
Arrivati all’attacco, con la mia compagna di cordata, noto con un certo disappunto che la parete è enorme, pressoché sconfinata, un po’ umida per la pioggia dei giorni precedenti, e non c’è nessuno nel raggio forse di cento chilometri (sono molto vaste, le Marche, quasi come la Patagonia). Quando indosso il casco alla base del grande muro mi accorgo che la cosa in sé, anziché tranquillizzarmi, mi agita. Sono le due del pomeriggio. Certo, ce la siamo presa un po’ comoda stamattina…
Vedo il primo spit: è a cinque-sei metri. La roccia là intorno è grigio-nera per il bagnato. La parete strapiomba. Mi avventuro: salgo un po’, e riscendo lesto lesto fino a giù. C’è una fessurina verticale, a circa tre metri da terra, dove ho infilato la mano destra. Sembra perfetta per un friend. Metto il friend, e poiché non posso più infilare la mano, provo a salire un metro e mezzo circa a sinistra, su delle tacche piccole e polverose. “Cazzo-cazzo, questa speravo fosse più grande…”
Sono di nuovo più o meno a quattro metri da terra, è giunto il momento di vedere se il friend tiene: “è importante e interessante scoprire se sono bravo a mettere i friend!” mi dico. (Non è colpa mia, credo, se il cervello mi parla sempre, spesso anche a sproposito). “Bloccaaaaaa!”. Bum! Il friend ha tenuto.
Mi faccio calare a terra e riparto, infilando la punta di due dita nello spazio rimasto libero nella fessurina del friend. Finalmente arrivo al primo spit, lo moschettono e continuo a salire, riuscendo così “quasi a vista” (in realtà: secondo tentativo) su uno dei 6c più duri, spittati lunghi e acciaianti della mia vita.
Sosta. Recupero lei, e parto per il secondo tiro, 6b+. In realtà è forse un grado e mezzo in meno del precedente, ma si sa: i gradi non esistono, e se esistono, sono sbagliati. Dopo un po’ capisco che la via se ne va bruscamente a sinistra verso una grande nicchia. Tipica cosa che capita solo “in alpinismo” (quando mai su un monotiro trovi un traverso di dieci metri a sinistra). Ancora sorpreso per questa linea bislacca, ma anche rapito dal colpo d’occhio sulla parete sovrastante (sono uscito dallo strapiombo), non mi accorgo che il bellissimo mega-appiglio a cui mi sto tenendo con entrambe le mani è completamente fessurato, e si scolla in quell’istante come una figurina che stai per appiccicare sull’album.
“Oh-oh!” Espressione da Willy il coyote un attimo prima di piombare giù nel canyon. Il mio corpo ondeggia in fuori e rientra. Il cuore batte a mille. Per fortuna è un tratto appoggiato, mi trovo su difficoltà di quarto, al massimo quinto. Ritrovo l’equilibrio spingendo sulla punta dei piedi e provo a reincollare alla parete il masso, che sarà largo una quarantina di centimetri. Nulla da fare, non si riappiccica più. Vuole cadere.
Brutto bastardo di un matrullo, gli dico. Un attimo fa eri tu a tenere me, e adesso sono io a tenere te. Siamo in bilico entrambi su questa parete assurda, in un pomeriggio di sole, e in un posto in cui soltanto io – penso – potevo mettermi in una situazione di pericolo.
Finalmente il cervello comincia a pensare le cose giuste. Anzitutto lei è in sosta qui sotto, esattamente sulla mia verticale. È vero che la parete strapiomba un po’, ma non sono certo che lo sia abbastanza. Grido: “attenta, c’è un problema, stai attaccata alla parete!”. Nella mia voce c’è tutta la tensione dei momenti critici.
Non so come ma sono riuscito a far scendere un poco il matrullo, tenendolo con gli avambracci, verso la parte interna del gomito: lo metto nella posizione in cui una mamma allatta un neonato, le dimensioni sono più o meno quelle. “E ora che ci faccio?” Non posso lasciarlo cadere qui sotto: qui sotto c’è lei. Potrei provare a lanciarlo, per quanto mi è possibile (pesa il maledetto), verso destra. Ma la mia corda scende proprio da quella parte. Immagino che cosa accadrebbe se il matrullo, cadendo, finisse proprio sulla corda. A sinistra c’è una specie di diedro, e quindi ritorneremmo nell’ipotesi uno: il masso potrebbe rompersi e ricadere comunque verso di lei.
Provo ancora a ragionare, per pochi lunghissimi minuti, sulla soluzione meno pericolosa. A un tratto mi rendo conto che, se sono ancora lì, è perché sto in equilibrio su una rampetta appena inclinata. Va bene – mi dico – adesso provo ad appoggiarlo qui ai miei piedi, vediamo se lui se ne sta buonino. E così è. Lo ho sistemato. Lui sembra star fermo. Lo ho convinto. “Adesso riscendo arrampicando!” grido. (Forse un altro avrebbe continuato. A me è passata la voglia, per oggi, di fare “alpinismo”). Risponde lei da sotto: “ma Luca, lascia un rinvio e calati! Se vuoi, lascia un moschettone dei miei!”
Eh no, penso, il moschettone non te lo lascio! Merda di via. Ancora l’orgoglio e la spacconeria del falesista. Mi faccio il tiro in discesa, e poi ci caliamo in doppia a terra.
Adesso, mentre scrivo, ci scherzo su. Ma la cosa lì per lì mi ha irritato, e a parte lo spavento, mi ha messo un po’ di cattivo umore. L’alpinismo è fatto, a ogni livello, di successi e insuccessi. L’arrampicata sportiva anche. Ma questa, che doveva in realtà essere – al di là delle battute – niente più che una lunga ed entusiasmante arrampicata in falesia, perché mi ha lasciato un così spiacevole retrogusto di incompiuto?
Allora ho provato a scacciare via il cattivo umore, e stavolta sono riuscito nell’impresa: mangiando una squisita piadina, bevendo una birra chiara. Ubriacandomi degli occhi di lei, che sono così belli quando sorridono.
Bibez
http://www.livellozero.net/?news=zero-alpinismo
Ultima modifica di Ad_buzz il Mer Mag 23, 2012 5:24 pm - modificato 1 volta.
zero alpinismo da livellozero.net :: Commenti
Re: zero alpinismo da livellozero.net
miiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii
mi sta succedendo la stessa cosa al contrario. l'aver dovuto ritornare in falesia. il cervello bloccato. la paura di farmi male a ogni spit. movimenti in condizioni a cui non ero + abituato da anni. stress allo stato puro. capacità di movimento che è sparita. grado che è sceso. voglia di smettere di arrmapicare. stanchezza cronica.....
è dura cambiar la proprio vita da vecchi.
immagino che al contrario rischi veramente di non tornar a casa intero....
mi sta succedendo la stessa cosa al contrario. l'aver dovuto ritornare in falesia. il cervello bloccato. la paura di farmi male a ogni spit. movimenti in condizioni a cui non ero + abituato da anni. stress allo stato puro. capacità di movimento che è sparita. grado che è sceso. voglia di smettere di arrmapicare. stanchezza cronica.....
è dura cambiar la proprio vita da vecchi.
immagino che al contrario rischi veramente di non tornar a casa intero....
ecco, bravo buzz
adoro leggere i racconti di bibez
non ho mai capito però perchè associo il nome bibez a lui!!!
vi giuro, è un collegamento automatico.
non c'è niente da fare: per me bibez è così!
adoro leggere i racconti di bibez
non ho mai capito però perchè associo il nome bibez a lui!!!
vi giuro, è un collegamento automatico.
non c'è niente da fare: per me bibez è così!
tocci ha scritto:è molto ma molto peggio...
ma io so che faccia ha bibez, ho visto varie volte foto sue sul forum
e tra l'altro quell'attore manco mi piace!
quindi sta cosa proprio non me la spiego...
Sta cosa ce l'aveva raccontata alle Placche di Bini quando l'ho conosciuto qualche settimana fa ...
biemme ha scritto:virgy ha scritto:bello rileggerti!
si virgy, condivido, ma con chi stai parlando ?
non mi fare domande difficili
bello rileggere qualcosa di bibez
bello rileggere qualcosa di bibez
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